UNA DELLE PRIME « STAZIONI» DI WOJTYLA IN TERRASANTA Un’ ora tra i da nnati del campo profughi L’ attesa dei palestinesi fuggiti nel ‘ 48 e dei loro discendenti
mercoledì 22 marzo 2000 La Stampa 0 commenti
inviata a BETLEMME
VERRÀ qui in visita oggi il Papa, dalla culla di Gesù a Betlemme
nell’ epitome del conflitto israelo-palestinese, un campo profughi.
Uno dei
più agguerriti, quello di Deheisheh. I profughi vivono nel cuore
delle
domande più basilari della storia: furono attaccati nel ‘ 48, o
fuggirono
perché spinti dai Paesi arabi che promisero loro il ritorno? Vogliono
tornare in Israele nei loro villaggi d’ origine, disegnando così uno
scontro
senza fine, o sono pronti al compromesso, vogliono vivere nello Stato
palestinese? Di loro le trattative discuteranno come di uno dei punti
più
duri.
Per il Papa la visita è una delle prime « stazioni» in Terrasanta:
Deheisheh,
nel comune di Betlemme, con i bambini magri col berretto Nike e la
felpa con
Topolino e la faccia da scugnizzo degli Anni Cinquanta, uno dei
luoghi più
« politici» e sofferenti del mondo palestinese. Qui oggi arriva il
Papa, fra
i diecimila abitanti del campo (non c’ è neppure un cristiano in
questo mezzo
chilometro quadrato su cui si affastellano le costruzioni di mattoni
e
calce) e nelle ore che rimangono si seguita ad aggiustare e a
inchiodare con
frenesia. Tuttavia, per scelta non si fanno grandi lavori. La
decisione è
quella che il Papa viva per un’ ora il senso di lunghissima, desolante
precarietà in cui si respirano sul collo i vecchi fuggiti nel ‘ 48 dai
villaggi situati in tutta Israele, gli uomini e le donne per la
maggior
parte disoccupati, i bambini come quello che alla mia domanda
risponde:
« Penso di sì , che il Papa ci possa aiutare» . Aiutare a che cosa? « A
tornare
a casa» . Quale casa? Non è nello Stato palestinese la tua casa? « No,
è a
Islin» . E dov’ è Islin? « Vicino a Ramleh» . Ci sei stato? « No, mai» .
Il campo è una bandiera della sofferenza palestinese e anche di
quella
perversione della sofferenza che è la politica. La sua gestione non è
neppure dell’ Autonomia palestinese, in cui pure si trova, ma
dell’ Unrwa,
l’ organizzazione per i profughi dell’ Onu. Deheisheh il giorno prima
della
visita del Papa è una specie di memento della irrisolubilità dei
problemi
mediorientali di fondo: i muri sbrecciati lungo le salite sono stati
disegnati di fresco con graffiti in cui soldati israeliani uccidono
bambini
macchiati di sangue che esclamano morendo: « Che cosa ho fatto di
male?» .
Eppure gli israeliani se ne sono già andati dal ‘ 93, Betlemme e il
suo
circondario sono dentro l’ Autonomia, sotto Arafat, Deheisheh è nel
cuore di
quello che sarà lo Stato palestinese... « Non c’ importa più di tanto
di ciò
che accade fuori di qui, e comunque per noi una soluzione non è stata
raggiunta. Noi siamo i profughi. I profughi che vivono in sessanta
campi
dentro quella che era la Palestina - spiega Ismael, un bel volto di
cinquantenne, i capelli e i baffi brizzolati, e macchiati del gesso
con cui
sta riparando gli scalini. - Io venni con la mia famiglia a Deheisheh
quando
avevo due anni fuggendo da Eshua, vicino a Beith Shean. Ogni altro
problema
fa parte delle trattative in corso, noi siamo stati messi da parte» .
Lei
pensa di tornare a Eshua? Di non abitare in Palestina, ma in Israele?
« Anche
i miei figli sanno che la loro casa è là . E la settimana scorsa ci
siamo
andati per un picnic. E’ sempre bellissima» .
Balletti folcloristici e suonatori di zampogne si allenano su sette
palcoscenici lungo la strada ornata di striscioni dove strombazzano
le
automobili. Il segretario del campo, Hussein Shahin, un funzionario
distinto
e determinato, descrive la sua situazione e quella dei suoi compagni
come
« una malattia cronica con punte tragiche» . Racconta che vi furono
sedici
morti nel campo durante l’ Intifada. « Il Papa viene in un luogo in cui
la
solidarietà è altissima, e dove la determinazione a ottenere ciò che
ci
spetta è totale» . Per la visita ci sono problemi di sicurezza? Cosa
dice
Hamas? « Qui Hamas è solo una parte della nostra famiglia. C’ è Al
Fatah di
Arafat, il Fronte della Liberazione di George Habbash: siamo uno per
tutti.
Il Papa può stare tranquillo» .
Sul portone di una delle case campeggiano due grandi foglie di palma
incrociate, segno che i suoi abitanti sono andati in pellegrinaggio
alla
Mecca. Ma nonostante i religiosi siano in aumento resta il segno di
un
vecchio mondo arabo con aspirazioni socialiste, laico, panarabista.
L’ aggettivo « imperialista» non è passato di moda ed è usato come
un’ offesa
grave. La foto di Habbash vicino a quella di Arafat che sorridente
dice al
Papa « Welcome to Palestine» racconta storie vecchie. Le donne sono
truccate
e in pantaloni, quelle con il velo sono relativamente poche:
vedendole,
giovani e dinamiche, viene voglia di immaginarle mentre vanno a
lavorare.
Invece la disoccupazione è altissima, in certi periodi raggiunge
l’ 85%.
Shahin racconta come un grande eroismo la reclusione di Deheisheh: di
là
dalla strada si vedono le nuove belle case dell’ Autonomia palestinese
che
fiorisce di iniziativa e di costruzioni. I rifugiati sono i monaci
della
rivendicazione totale, le scritte che oggi preparano perché il Papa
le veda
durante la sua visita contengono una lista di nomi di villaggi che
sono
sparsi per tutta Israele. La trattativa di Arafat, però , non è su
questi
luoghi: « Non importa - suggerisce Nadem, che è nato nel campo nel ‘ 67
- non
rinunciamo al nostro sogno perfino se fosse irrealizzabile» . Ma
questo crea
nei bambini frustrazione, rabbia... « La verità è che una qualche
soluzione
sarà trovata. Dovranno aprire qualche porta. Il mondo intero lo
richiederà » .
Insomma, si scioglierà un giorno il campo, lei andrà a stare al di là
della
strada? « Non me lo immagino... Da cinquant’ anni siamo abituati a
stare in
questo mondo di solidarietà , di politica, senza teatro, senza cinema,
senza
uscire la sera» . E che ne pensa Ismael del fatto che il Papa ha
chiesto
scusa agli ebrei per i torti fatti loro dalla Chiesa? « Penso - dice
inghiottendo - che dobbiamo tutti chiederci reciprocamente scusa. Un
giorno
dovranno chiedercela gli israeliani, e forse anche noi a loro. Quando
questo
sarà fatto, anche per i profughi si comincerà a scorgere l’ alba» .