UNA CAMPAGNA DI PACE
mercoledì 29 novembre 2000 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
ADESSO che oltre ai morti e agli spari, Israele vive il nuovo caos
pre-elettorale sembra davvero che il destino dannato del Medio
Oriente debba
prendere il sopravvento sugli uomini di buona volontà .
Si resta amareggiati all’ idea che Ehud Barak, il soldato della pace
che era
stato eletto proprio per la sua promessa di mettere fine non solo al
conflitto israelo-palestinese, ma alle tensioni di tutta l’ area,
debba
invece cedere le armi. In difficoltà di fronte alla sanguinosa
Intifada di
Al Aqsa, che ormai dal 28 di settembre divora l’ anima dell’ accordo di
Oslo,
e a un’ opposizione che, incurante della situazione di emergenza, ha
teso
ogni trappola per rovesciarlo.
Barak ha vissuto fino alla consunzione, roso anche dai dissensi
interni, il
dramma del rifiuto palestinese alle sue audaci proposte. Ha scontato
l’ incapacità degli Stati Uniti di far sentire la propria voce e ha
confessato la terribile solitudine di chi, dopo « aver rigirato ogni
pietra»
alla ricerca della pace, sente che anche il suo popolo lo ha in gran
parte
abbandonato, preda di rabbia e frustrazione.
Tuttavia il suo gesto di abbandono è anche l’ apertura di una nuova
fase di
lotta. L’ idea di un governo di emergenza, che pure seguita a
balenare, si è
incagliata sulle pretese della destra di Ariel Sharon di esercitare
il
diritto di veto su qualsiasi gesto del governo. Né sono mancate le
resistenze in campo laburista: perfino Shimon Peres ha accusato Barak
di
volere svendere Israele. Il premier ha capito di essere ormai solo e
ha
deciso di giocare l’ ultima carta rimasta in suo possesso.
Dichiarandosi
pronto alle elezioni anticipate, ha scommesso sulla sua tenace
volontà di
pace.
Prima di dichiararsi sconfitto alla Camera, ha voluto ritirare i
carri
armati, ordinando all’ esercito di sparare solo in casi estremi. Ha
riaperto
parte del commercio con i palestinesi e revocato il divieto
d’ ingresso nelle
Moschee ai giovani. Solo dopo questi gesti, audaci nel clima di
guerra
mediorientale, ha alzato le braccia.
Ma il segnale era già stato dato: da oggi alle elezioni anticipate,
probabilmente nel maggio del 2001, Barak vuole marciare solo, così da
poter
pagare il prezzo che gli sembrerà giusto per un rapido risultato di
pace.
Senza le pastoie delle finte alleanze e senza i veti di Sharon, spera
di
arrivare a un accordo con Arafat che convinca di nuovo gli israeliani
che la
pace è possibile, che esiste ancora un sogno da perseguire, che
l’ accordo di
Oslo non è morto. Ricreando attorno a sé di nuovo una grande
maggioranza
popolare.
Ci sono due incognite gravi rispetto a questo disegno: la prima si
chiama
Arafat. Il Presidente palestinese potrebbe alzare la posta fino a
vanificare
il piano di Barak. La seconda ha nome Netanyahu: il premier laburista
se lo
troverà di fronte, nemico poderoso, rinvigorito dall’ attuale
Intifada. Solo
un risultato preventivo può persuadere Israele a riscegliere come
leader
eletto il successore di Rabin. Barak marcerà in quella direzione
senza
risparmio di forze. La pace è la sua campagna elettorale.