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Una bomba sul negoziato: Arafat non è l'interlocutore giusto, non bis ogna sacrificare i coloni Israele, il Presidente demolisce la pace

venerdì 22 settembre 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV NOSTRO SERVIZIO Mentre Arafat e Peres sudano insieme le ultime righe del secondo Trattato di Oslo, la più alta autorità dello Stato, il presidente della repubblica Ezer Weizman, rema contro. A 71 anni, da due nel suo ruolo di 7§ presidente dello Stato di Israele, ora guerriero, ora pacifista, ex ministro prima per il Likud e poi per il partito laborista, Weizman è sovente sommerso in un bagno di folla; oppure si rivolge col suo fare gioviale, in bell'ebraico letterario, gli occhi azzurri sorridenti, al pubblico televisivo. In questi giorni, da tutte le tribune possibili, ha intensificato la sua opera di erosione critica del processo di pace voluto dal governo di sinistra di Rabin e di Peres. Eppure è di sinistra egli stesso. Mercoledì , proprio mentre un gruppo di autorevoli rabbini si riuniva a Kiryat Arba, la roccaforte dei coloni, per emanare un'ennesima bolla di scomunica al ritiro dai Territori Occupati, e annunciava la volontà di immolarsi difendendo Hebron con i propri corpi e invitando i soldati a disubbidire, Weizman visitava gli abitanti ebrei di quella cittadina, pomo della discordia: 400 persone che in questi giorni si oppongono più di chiunque altro alla consegna di Hebron in cui convivono malamente con 150 mila arabi. I ragazzi della Yeshiva, la scuola religiosa, hanno cantato in coro per il Presidente, e i giornalisti che chiedevano di accompagnarlo hanno ricevuto un rifiuto. Weizman ha promesso alla piccola folla: . Il calore della visita era certamente denso di significati. Ma tutte le sue critiche esplicite, appena velate dal suo humour e dalla sua eleganza diplomatica, Weizman le ha riservate per la serata, quando, alle 21, è stato intervistato per più di mezz'ora sul primo canale della tv. Non è rimasta pietra su pietra dell'operato del governo. Dopo aver definito il suo compito, quello di farsi portavoce e ponte dell'opinione di tutto il popolo, e quindi anche della minoranza, Weizman ha spiegato che decidersi ad abbandonare la West Bank è una decisione gravissima, perché si tratta, geograficamente, del del sionismo stesso. La trattativa poi, ha detto, si svolge con una fretta che rende poco credibili le scelte fatali che stanno per essere fatte. La fretta è un'arma dei nostri antagonisti, dice Weizman, noi dobbiamo semmai prendere tempo e pensare che stiamo dando via delle carte che sono forti soltanto finché le abbiamo in mano. Come dire: stiamo cedendo troppo, e troppo rapidamente. Il Presidente, poi, è sempre dello stesso parere su Arafat: non è la persona giusta con cui trattare. Ha spiegato anche che alla firma del primo Trattato di Oslo non bisognava restituire Gerico, ma solo Gaza. E la corda che questa opinione così audace, così poco ecumenica fa risuonare, è una corda cupa. È infatti proprio a Gerico che in questi giorni si aggirano in piena libertà gli assassini dei due giovani escursionisti ebrei uccisi nel Wadi Kelt, vicino a Gerusalemme, poco tempo fa. La polizia palestinese ha rifiutato di estradarli; e i processi sono stati farseschi. La battaglia di Weizman, al di là dello scandalo immediato che suscita, è una battaglia importante, e sostanzialmente perdente: è la guerra alla nuova cultura del processo di pace che Weizman ha definito, con disgusto aristocratico, , distaccata dai valori basilari della storia di Israele. È una battaglia contro la detronizzazione dei pionieri dalla vita severa ed eroica degli inizi dello Stato. Il Presidente, per esempio, ha dato la colpa della morte di due giovani israeliani schiacciati dalla folla durante un concerto rock appunto alla . Ha attaccato anche frontalmente l'idea che il sionismo possa essere soltanto una forma blanda di reciproco supporto fra Israele e la diaspora: ai leader ebrei americani che lo acclamavano qualche mese fa rispose tagliente che se volevano che lui fosse il loro Presidente dovevano soltanto utilizzare la Legge del Ritorno e diventare israeliani. I costituzionalisti e i politici si chiedono se sia il caso, alla vigilia dell'elezione diretta del primo ministro dopo il 1996, di conservare la figura stessa del capo dello Stato. Prima di Weizman la tradizione del non intervento del Presidente la ruppe soltanto Itzhah Navon, quando istituì una commissione d'inchiesta dopo la strage di Sabra e Chatyla. Moshe Negbi, esperto di questioni legali, spiega che il capo dello Stato né deve prendere posizione nel dibattito politico; né può fare dichiarazioni controverse. Tutto il contrario di quel che fa Weizman. Ma l'unica cosa su cui tutti sono d'accordo è che è uno dei personaggi più affascinanti e decisi della storia di Israele. Deciso a infrangere ogni regola a vantaggio della sua scelta morale, giusta o sbagliata, comoda o scomoda. Fiamma Nirenstein

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