UNA BATTAGLIA VERA FRA DUE PARTI AGGUERRITE, DESTINATA A CAMBIARE LA PERCEZIONE MEDIATICA DEL CONFLITTO David e Golia non abitavano a Jenin
martedì 30 aprile 2002 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
E’ stato il New York Times a chiedersi, qualche giorno fa, se per i
palestinesi non sarebbe stato meglio descrivere la battaglia di Jenin
come
una fiera scelta di opposizione fino alla morte, come l'acquisizione
strategica di una dimensione dura e decisa in una guerra frontale, in
cui i
palestinesi sono invece stati spesso descritti come David di fronte a
Golia,
con le loro pietre, i loro bambini vittime di uno dei più potenti
eserciti
del mondo. E invece, la scelta mediatica è stata ben diversa:
massacro,
hanno detto i palestinesi, e i media ne hanno per giorni e giorni
echeggiato
la comunicazione disperata. « Semmai» , ha scritto il Times di Londra,
« i
rifugiati hanno sottostimato il massacro e l'orrore» quando i
palestinesi
parlavano di 500 morti. Stessa cosa a Betlemme: la sua lunga e ancora
inconclusa vicenda non è stata descritta da parte palestinese come la
scelta
audace e anche strategica di un forte gruppo di uomini di Fatah
(ovvero di
Tanzim e delle Brigate di Al Aqsa) e di Hamas, ma come uno spietato
assedio
di carri armati israeliani a un gruppo di persone asserragliatesi in
difesa,
come nel Medioevo.
Di fatto, sia la prossima Commissione d'inchiesta dell'Onu, con tutti
i
possibili pregiudizi che può portarsi dietro su Israele, sia ciò che
rimarrà
nell'aria dopo quella che nei fatti è stata un'occupazione di mura
sacre da
parte di uomini armati, per quanto assediati da altri uomini armati,
sono
punti di svolta nella gnoseologia della guerra fra Israele e i
palestinesi.
Fino a ora, essa non è stata contraddetta, nel suo disegnare Arafat
come una
vittima, dalla descrizione - da parte degli inviati speciali di tutto
il
mondo - dei terroristi suicidi come personaggi sbandati, disperati,
sostanzialmente dei freak all'interno invece di una società misera ma
sana.
Il terrorismo suicida ha lasciato in piedi in Europa (ed è
stupefacente)
l'idea che i palestinesi siano semplicemente vittime. Ma la battaglia
di
Jenin, durata due settimane, proprio in virtù della Commissione che i
palestinesi hanno tanto voluto, e persino se la Commissione dovesse
stabilire che Israele ha avuto un comportamento umanitario sbagliato,
reprensibile, insensibile, cambierà la percezione mediatica della
guerra.
Perché là si è vista la guerra fra due parti forti ambedue, una
guerra vera
e propria. Innanzitutto perché a fronte di 23 soldati israeliani
uccisi, con
i mezzi che ha l'esercito israeliano, si parla a oggi del doppio
circa delle
vittime palestinesi, fra cui pochi civili. Questo è ciò che viene
fuori per
ora, che è opinabile e comunque tragico, dal lavoro delle ruspe:
persino il
giornale Ha’ aretz e la sua inviata, Amira Haas, hanno dovuto
esclamare che
« strage non c'è stata» .
Invece, tanto dalla nostra esperienza diretta quanto da quella di
molti
colleghi di tutto il mondo, risulta dalle testimonianze raccolte ex
post una
fierissima resistenza molto sofisticata e programmata, in cui tutto
il
paese, una vera casamatta, era stato disseminato di mine, in cui, a
dirla in
una parola, il suicidio terrorista individuale, visto come atto di
estremo
eroismo, si era trasferito a tutto il campo profughi. C'è da
chiedersi come
gli uomini dell'Unrwa, incaricati del benessere e della salvaguardia
della
popolazione, non se ne fossero accorti e non avessero lanciato un
allarme
sociale. La popolazione, quella parte che era rimasta nel campo
profughi,
insieme alle organizzazioni palestinesi mirabilmente unite (Hamas,
Jihad,
Fatah), si è offerta di fornire tutta la logistica necessaria ai
combattenti, e così è stato. Le vedette, i portatori di cibo di
acqua, di
armi, anche di esplosivo, erano donne, ragazzini e persino bambini.
Ogni
casa, tubo dell'acqua, tombino, persino i frigoriferi e i letti, sono
diventati « booby traps» . Gli israeliani raccontano di guerriglieri
che
uscivano dalle case al loro avvertimento, con le mani in alto e le
cinture
di dinamite, o seguiti da due civili, uno a destra e uno a sinistra.
Fattostà che Tzahal, l'esercito israeliano, ha perso in un sol colpo
più
della metà di tutti i soldati caduti in questa guerra; le unità in
servizio
raccontano che la battaglia è stata più dura di ogni altra che si
ricordino.
Che i bulldozer hanno cominciato a distruggere delle mura solo dopo
aver
visto che era impossibile perché troppo costoso combattere porta a
porta, e
comunque dopo aver chiamato gli abitanti, secondo loro in gran parte
evacuati dai combattenti in villaggi vicini proprio in vista dello
scontro,
a uscire molto tempo prima; insistono anche, i soldati, a ripetere
che la
Commissione verificherà quanto le case sono per terra a causa dei
bulldozer,
e quanto per le booby traps.
Tzahal aggiunge che sarà stato forse lento nel lasciare entrare
ambulanze e
giornalisti, ma secondo la sua versione era quasi impossibile, con
tutto
quel tritolo in giro, lasciarli entrare. La commissione lo
verificherà . Ma
quello che certo scoprirà , nonostante l'Independent di Londra in quei
giorni
abbia scritto di « un mostruoso crimine di guerra» , è che alla fine si
vedranno i resti di una grande, vera battaglia, nella città da cui,
non a
caso, erano usciti 29 terroristi e che era nota per la sua ferrea e
unitaria
militanza. Comunque, fra i 790 fermati da Israele ci sono capi molto
importanti.
Anche a Betlemme, una volta finita la vicenda, quando i ricercati
degli
israeliani saranno forse partiti per un esilio concordato fra Arafat
e
Israele, o alcuni saranno in mano israeliana, si potrà misurare
l'audacia
del piano che ha quasi messo in aggressivo confronto il mondo
cristiano con
quello ebraico. Con l'ordine di combattere fino in fondo o di
lasciarsi
eventualmente anche morire, un gruppo di uomini ha tenuto la chiesa
della
Mangiatoia con le armi nella convinzione che i soldati israeliani in
piazza
avrebbero cercato di entrare a tutti costi per prenderli prigionieri.
Una
battaglia per la vita e per la morte, una scommessa strategica molto
dura.
Questa grande durezza nella strategia, che ha il suo punto massimo
nel
terrorismo suicida, ha ancora da essere capita, gli schemi non si
rovesciano
facilmente. Non c'è niente di freak nel combattente palestinese, né
il
terrorista suicida agisce per disperazione esistenziale: Arafat in
questi
giorni, prima di tornare a essere il rais a Gaza, si è fatto chiamare
soltanto « generale» . E questo è oggi: il generale di un esercito
unito e
compatto, che sa maneggiare la dinamite e la strategia, e che fa
della
guerra di immagine, della presa mediatica in quanto vittima, uno dei
punti
salienti dello scontro che speriamo torni quanto prima al tavolo
della
politica.