UN VUOTO NELLO SCENARIO MEDIORIENTALE Israele già rimpiange l’ indispe nsabile arcinemico Odiato, considerato un terrorista, il Raiss rappresenta co munque un punto di riferimento. Si teme il caos per mancanza di leadership
lunedì 1 novembre 2004 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
Tornerà con la solita keffya e con la divisa militare o non tornerà ? Come
sta veramente il Raí ss? Grande confusione domina la scena mediorentale. I
suoi uomini giurano che sta meglio, il suo finanziere Mohammed Rashid ha
addirittura detto che « l’ aria di Parigi gli fa bene» , come fosse in un film
romantico. Giurano che non ha la leucemia; i capi storici (Abu Mazen, Abu
Ala e altri)si riuniscono alla Mukhata con l’ aria di « business as usual» . Ma
la sedia del Raí ss resta vuota; al telefono Arafat autorizza a pagare gli
stipendi di ottobre, e dicono che ha parlato a lungo e con tante persone
diverse.
La confusione sul futuro regna comunque. In realtà si sussurra che a Parigi
i medici si sono per ora limitati a energiche cure che lo rimettessero in
funzione, come le trasfusioni massicce che diminuiscono i sintomi, ma non la
gravità della malattia. E Israele è in difficoltà , per motivi sia
pratico-politici che psicologici: manca il banco di prova, l’ interfaccia, il
motore di un’ intera politica, il volto indecifrabile di un nemico giudicato
talmente impraticabile da aver dettato col suo comportamento la scelta
dell’ unilateralismo, che ora è la bussola principale dello sgombero prossimo
venturo e che fino a ieri rappresentava anche il tentativo di stimolare un
ricambio di leadership.
Manca la ragione stessa dell’ attuale politica israeliana. E che cosa c’ è al
suo posto? Il nulla. Una situazione in cui il Raí ss può tornare da un
momento all’ altro (e i palestinesi mostrano speranza e paura per questa
ipotesi). La speranza che sorga una leadership moderata. O il pericolo di
una leadership che venga trascinata dal radicalismo popolare che si è
diffuso in questi quattro anni e non possieda il deterrente carismatico che
Arafat poteva invece, a piacere, applicare a Hamas, alle Brigate di Al Aqsa,
ai gruppi armati di interesse privato.
La migliore sintesi della confusione mentale degli israeliani di fronte alla
malattia forse mortale dell’ arcinemico l’ ha data il generale Aharon Zeev
Farkas, capo dei servizi segreti militari, che, richiesto di un parere
ufficiale sulla salute del Raí ss, ha detto: « E’ fra la morte e la ripresa
piena» . Risate dei ministri, che tuttavia si erano chiesti molto seriamente,
poco prima, come mai il quasi coma di Arafat fosse arrivato inaspettato,
come se Israele non controllasse il Raí ss con ogni mezzo umano e tecnico
ventiquattr’ ore su ventiquattro da quando fece i suoi primi attacchi
partendo dalla Giordania nel 1964.
Arafat ha sempre confuso moltissimo gli israeliani, sempre in bilico fra la
decisione di eliminarlo come mandante di attacchi contro aerei, autobus,
bambini, kibbutz, gli atleti di Monaco; oppure se onorarlo come partner di
negoziati con cui andare mano nella mano a ritirare quell’ inutile premio
Nobel per la Pace del 1994.
Quando, nello stesso anno, in base all’ accordo di Oslo Arafat rientrò a
Gaza, apparve sui teleschermi un documentario in cui lo si vedeva senza
keffya, mentre mangiava e dormiva, consentendo che si vedesse il suo letto,
il suo armadio. La gente ne fu sconvolta. Le democrazie hanno giustamente un
debole, appena se ne presenti l’ occasione, per la pace, per le persone
anziane, deboli, malate. Anche adesso, dopo i quattro anni terribili, a
vederlo in pigiama, magro e disfatto e col berretto da marinaio anziché con
la divisa (che però gli hanno rimesso persino per trascinarlo
all’ elicottero), parte degli israeliani, anche se non hanno nostalgia della
sua politica, lo hanno guardato con occhi diversi.
I suoi vecchi amici, come Uri Avnery che andò a trovarlo a Beirut nel 1982,
quando era fuori legge, dicono addirittura: « Se sparisce, è un grande
disastro per lo Stato d’ Israele» . Altri, che non arrivano a tanto ma
vogliono un accordo negoziato e non una scelta unilaterale, adesso si
riaffacciano per dire che, se cambia la leadership, si può ricominciare a
parlare di vaste concessioni territoriali concordate. « Sharon - dice Yossi
Beilin, capo storico della sinistra radicale - non ha mai voluto coordinarsi
neppure con i moderati come Abu Mazen o Abu Ala, perché alla fine “ andavano
da Arafat” . Ma che dirà , se adesso non devono più andare da Arafat?» .
Insomma, laddove esce Arafat, si riaffaccia subito Oslo: anche il segretario
di Stato americano Colin Powell, che ha parlato della speranza degli Usa di
veder sorgere una leadership moderata con cui Israele possa trattare, parla
di concessioni territoriali concordate. Di sicuro anche Bush, se rieletto,
preferirebbe la Road Map al disimpegno unilaterale; figurarsi poi Kerry.
Sharon, per ora - come si è visto alla riunione del Governo di ieri - tiene
la bussola puntata a sud, verso Gaza: lo sgombero per lui non è affatto in
discussione. Unilaterale? Certo. Resta il grande problema: proprio ieri,
ancora una volta, un ragazzo di vent’ anni è stato ridotto in fin di vita da
un missile Kassam lanciato da Gaza verso l’ insediamento di Gush Katif.
Bisogna pensare a come ritirarsi senza scappare, ritirarsi sì ma non sotto
il fuoco.
Per questo ci vogliono gli egiziani. Sharon è adamantino anche e soprattutto
su un altro punto: se Arafat dovesse sparire, non sarà mai sepolto sulla
spianata delle Moschee. Questo farebbe di un luogo sacro per le tre
religioni monoteiste un’ attrazione politica incontenibile e infiammatoria
per tutto l’ Islam.