UN SECOLO IN FAMIGLIA Editori per elezione, severi e calvinisti. Vo llero creare gli italiani, furono sconfitti dalla modernità I VALLARDI e il toro di Helenio Herrera
martedì 9 novembre 1999 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
MILANO
CHISSÀ per quale ironia della sorte la carta stampata e le idee
vivono in un
rapporto che si potrebbe dire coniugale, deteriorabili ambedue,ma
indispensabili come l'aria e il cibo. E quindi non è strano che
l’ incastro
delle storie di famiglia che compongono, almeno in piccola parte, la
vicenda
italiana del secolo che sta per concludersi (e che in realtà comincia
qualche decennio prima, mentre si fa l'Unità d'Italia) inizi dalla
carta e
dalle idee, anzi da due deliri su due letti di morte. Il primo è un
quieto
delirio di Francesco Vallardi, un signore milanese di alta borghesia
liberale che si spenge nel 1895, ornato dalla sua barba e della sua
dignità
di editore. Dal giaciglio intorno a cui è riunita tutta la famiglia
consegna
due frasi alla memoria familiare: « che bel tramonto roseo» sospira
invidiabilmente. Ma anche il rimpianto del distacco gli esce dal
petto: « I
miei libri,i miei bei grandi libri» . Invece che ai figli o alla
moglie, dice
addio al suo Atlante d'Italia che ha contribuito a disegnare nei
compatrioti
l'idea stessa del sacro Stivale, saluta la Grande Enciclopedia di
Cultura
Generale che ha creato con grave dispendio di energia e di denaro per
unificare la cultura del nuovo Paese, di certo dice ciao soprattutto
alla
sua creatura giovanile prediletta, la serie patriottica del « Nipote
di Vesta
Verde» , sul quale hanno scritto prose di amor patrio Visconti
Venosta,
Cesare Correnti, Tommaseo: libri che uscivano da un'officina di via
Oriani a
Milano, e davano addosso, riodiati, agli austriaci di Radetsky.
L'editore
Francesco Vallardi fondatore della Ditta lascia così questo mondo a
86 anni.
Il secondo delirio è un addio che strazia la famiglia: muore Gianni
Vallardi
a 52 anni nel 1942, mentre la guerra è in pieno svolgimento e il
fascismo
combatte i Paesi liberali e la loro ideologia. « Loro credono di
batterli… ma
l'Inghilterra vincerà perché sa tenere duro» sono le sue ultime
parole. Un
altro Vallardi costruttore dell'Italia liberale e democratica esala
la
propria anima di liberale, stavolta deluso. « Loro» sono per lui i
fascisti,
non gli italiani che la famiglia ha cercato e cercherà di costruire
con le
opere scientifiche, ha cercato di sprovincializzare con i trattati
inglesi
francesi tedeschi di giurisprudenza e di medicina, non hanno niente a
che
fare con la montagna di carta zeppa di idee che dal 1930 ,succedendo
al più
robusto costruttore della dinastia, Cecilio figlio di Francesco,
Gianni ha
messo insieme. Né sono i figli della mente fantasiosa e
anticonformista di
Leonardo che a 17 anni era scappato di casa con i garibaldini e che
aveva
poi creato le sedi di Buenos Aires, di San Paolo del Brasile, di
Alessandria
d'Egitto,e da Napoli dove il padre lo aveva mandato a lavorare
scriveva di
getto « fatemi tornare, perché sono stufo di soggiornare fra i gesuiti
e i
ladri» .
In tutte le case della borghesia autentica, quando si suona il
campanello,
lo si sente squillare misterioso e molto lontano. E la porta si apre
sempre
un po' in ritardo, come per dare tempo al visitatore di rassettarsi.
La
signora Titti (Cecilia) Vallardi Beria d'Argentine, moglie di Adolfo,
ci
conduce in un salotto che segue a un altro. Niente è grande, neppure
i bei
quadri alle pareti, niente colpisce eccessivamente l'occhio, la
dovizia è
temperata dal buon gusto.
Titti Vallardi era una brava pittrice finché non si è dedicata tutta
alle
tre figlie Camilla, Chiara e Delfina. Parla piano e con gentile
determinazione come chi è abituato a ridurre, a interiorizzare, a
evitare
gli impulsi, a conservare la severità del suo retaggio. « Questo è il
palazzo
della nostra famiglia. Abbiamo sempre abitato qui, e chi non abita
qui è
andato a stare poco lontano, sempre dalle parti di via Cesare da
Sesto... Le
belle case dei vecchi milanesi, anche quelle molto più lussuose della
nostra, non concedevano niente allo sfarzo, niente all'esteriorità .
Erano
tutte rivolte verso il cortile, la facciata non aveva importanza. Era
importante la coerenza interiore, la generosità , lo stile. Oggi vedo
un
mondo tanto esibizionista, possessivo... Una volta, quando avevo
diciotto
anni, desideravo una borsetta rossa. Mio padre Gianni chiese alla
mamma,
Chiara: “ Mia figlia non ha una borsetta?” .Sì , gli fu risposto, una
borsetta
blu. “ Allora basta” . E poiché l'ascensore di casa aveva un sedile di
pelle
rossa che si andava un po' sbucciando, lo guardavo pensando: “ Lo
potrei
ritagliare e farci una borsetta prima che sia da buttare” . Modestia,
e
generosità verso chi non può : questa era la lezione di casa. Lo zio
Cecilio
costruì un ospizio per laureati bisognosi. Naturalmente dovevano
essere
cristiani, e a casa nostra tutte le femmine andavano a scuola dalle
Orsoline» .
La storia più antica dei Vallardi comincia nell'attuale Largo Santa
Margherita davanti alla Scala, all'angolo col Vicolo dell'Aquila che
non c'è
più . C'erano molti librai da quelle parti fra cui una bottega
frequentata
dagli intellettuali dalla Società Patriottica: « amanti delle lettere
e della
cultura, liberali, progressisti... Aveva certo un tratto austriaco,
quello
che poi ha dato ai milanesi il senso della responsabilità collettiva,
dell'ordine, dello Stato... certo non ce l'hanno dato gli spagnoli.
Quando
vado al cimitero monumentale e vedo sulle lapidi “ servitore dello
stato,
probo intendente di finanza ...” io ammiro quei morti; quando ripenso
a come
Maria Teresa restaurò subito e bene la Scala che era andata in
fiamme...»
Titti Beria d'Argentine ricorda anche ciò che anagraficamente non può
ricordare: il passaggio della bottega di libri alla fine del
Settecento
all'iniziatore della dinastia, Francesco Vallardi, che si faceva
consigliare
nelle scelte editoriale dall'abate Parini, dai fratelli Verri, da
Alessandro
Volta. Poi prendono lo scettro i figli Pietro e Giuseppe che
intraprendono
l'incisione sul rame: quattromila lastre di autore entrano a far
parte del
repertorio Vallardi. Nuovi negozi si aprono a Venezia e persino a
Parigi.
Quando, morto Pietro, resta in bottega Giuseppe, prende il
sopravvento il
suo temperamento di collezionista di quadri e comincia anche una
attività di
pubblicazioni araldiche. Sarà il prossimo erede, che in realtà
avrebbe
voluto fare il medico, a indirizzare la Casa Editrice verso il sogno
di
costruire gli italiani indipendenti e liberali. Nel ‘ 59, un anno
prima
dell'unità , Francesco crea il quotidiano La perseveranza; poi, finita
la
militanza in senso stretto, la Vallardi prende la sua propria strada:
quella
del successo e poi della rovina.
I Vallardi vogliono fare gli italiani con le Grandi Opere, croce e
delizia.
Perché esse da una parte conducono in casa tanti studiosi italiani e
stranieri e creano una fucina di intelletti. « Ma - spiega Gianni
Vallardi,
un quasi cinquantenne seduto al grande tavolo di direttore di tutta
la parte
“ libri” della Rizzoli - negli anni diventarono sempre più costose,
ricche di
spese preventive, con investimenti a parte sulle reti di vendita, con
tempi
storici di realizzazione. Funzionò finché eravamo molto specializzati
in
medicina e giurisprudenza. Poi tornammo a un ruolo enciclopedico con
il
pagamento a rate funzionale a un vecchio mondo, dove la stanzialità e
anche
l'affidabilità personale erano molto maggiori. Queste scelte si sono
dimostrate impraticabili; quando nel ‘ 79 mio padre lasciò , ormai
dovevo
gestire il collasso e poi la fine della casa editrice. E' stato un
training
molto speciale gestire fino agli Anni Settanta la Storia della
letteratura
italiana, la Storia Universale, la Storia della Letteratura
d'oriente.
Quando riuscii a vendere fatica e pena all'editore veneto Piccin ero
un
editore super allenato» .
Per conoscere i Vallardi, oltre che dalla casa editrice, dobbiamo
passare
per una grande villa settecentesca, quella dei conti Cagnola a
Appiano
Gentile, dove in un parco dichiarato monumento nazionale vive un
cedro del
Libano che ha 650 anni. La compra nel 1902 il grande consolidatore,
Cecilio,
figlio di Francesco, uomo di preghiera e di ferro, quasi cieco,
paterno e
generoso quanto irriducibile con gli operai delle sue tipografie. E'
lui che
sposta l'attività in campagna quando nella fabbrica di Milano i suoi
uomini
credono di piegarlo con uno sciopero; e ordina alla carrozza di non
passare
mai più dalla piazza di Appiano Gentile dove aveva situato sia gli
stabilimenti sia la sua casa estiva, perché anche quelli osano fargli
sciopero: c'è ripassato solo col carro da morto.
La villa di Appiano è la pupilla dei ricordi della famiglia, immensa,
con
archi, cortili, segrete e grandi tetti. « Ogni estate - racconta
Gianni -
mentre i miei genitori Gianfranco e Tilla Preti e Titti con Alfredo
Beria
d'Argentine si riposavano o giocavano a tennis o incontravano gli
amici, noi
ragazzi, io, mia sorella Francesca che vive ora in California, le
cugine
Camilla Chiara e Delfina, ci scapicollavamo nei capannoni. Correvamo
in
bicicletta in mezzo agli operai fra le linotype che sputavano piombo,
su e
giu per gli scivoli, avanti e indietro sui tetti. Sapevo che mi si
disegnava
un futuro di editore, fra una corsa e l'altra lo spiavo sul volto di
mio
padre Gianfranco (e di mia madre che lavorava con lui): era un grande
accentratore che lavorava senza orari, sempre in mezzo ai suoi
autori, e
anche ai guai economici. Il rapporto fra noi non è stato facile, ma
mi
sembra che qui, alla Rizzoli, riesco oggi a realizzare tanti buoni
libri,
forse più di quelli che avrei fatto da solo. E poi non è detta
l'ultima
parola. Può darsi che la Vallardi risorga: io lavoro per mio figlio
Edoardo,
di 15 anni» .
Chiara, giornalista, figlia di Titti, sposata con un giornalista
molto noto,
Gianni Farneti, madre di Emanuele (25 anni, giornalista) e di Matteo,
è
direttore del settimanale Lo Specchio. Dice: « La carta era fatta per
vivere,
per giocare, la stampa era il mio respiro. La villa di Appiano, con
il
pesciaiolo che viene il venerdì e il panettiere da raggiungere in
bici, con
il rito delle frittelle, gli amici di papà più di sinistra, e quelli
dei
Vallardi più di destra, e ovunque il soffio di una mentalità
calvinista, di
una moralità borghese che è la vera scuola della mia vita spariscono
simbolicamente quando Helenio Herrera comprò una proprietà e con lui
arrivò
quel buffo toro di ferro per il giardino. Noi ragazzi guardavamo
stupefatti... Insieme al toro vennero ii villeggianti veri, i negozi,
la
casa di Krizia invece che quella di Camilla Cederna. Arrivavano con i
ristoranti e i night club anche i guai della casa editrice. La crisi
io la
ricordo come una valanga di modernità accompagnata dalla criminilità :
il
tragico rapimento di Cristina Mazzotti segna una svolta d'epoca a
Appiano.
Dopo, abbiamo venduto. E' rimasto un appartamento dove vive la zia
Tilla,
sempre bellissima» .
I lineamenti di Titti si addolciscono nella nostalgia del ricordo:
« Ho
incontrato mio marito fra i partigiani a Courmayeur. C'era un ballo
in cui
nell'entusiasmo qualcuno tirò giù la bandiera italiana: lui disse:
quella
no, non si tocca. Così saggio e moderato, è rimasto sempre il
rivoluzionario
di casa, l'amico dei partigiani, il progressista, il fondatore di
Magistratura Democratica, l'uomo che ha avviato tutte e tre le nostre
figlie
a una grande emancipazione personale e professionale. Certo - sorride
- con
la mia approvazione. Penso però che la borghesia liberale più o meno
di
sinistra aveva un intento comune, grandi valori di modestia e
sacrificio
eguali per tutti. Li ho ritrovati in mio suocero che ha fatto per
tutta la
vita il pretore a Perosa Argentina. Mentre Alfredo era in montagna
con i
partigiani, anche a casa mia non si poteva soffrire il fascismo, e io
stessa
accompagnai delle persone al confine per aiutarli a espatriare» .
Persone?
Ebrei nascosti in casa? partigiani? « Sì , di sicuro... ma non importa,
non
mette conto parlarne...» .