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Un laborista lo denuncia per istigazione all'odio, critica anche Leah Rabin Bufera per la frase sfuggita a Netan yahu alla radio

giovedì 23 ottobre 1997 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME NOSTRO SERVIZIO In una specie di spirale autolesionista, Bibi Netanyahu, il primo ministro d'Israele, scivola su un susseguirsi implacabile di bucce di banana: prima il fallito attentato di Amman, poi, proprio il 21 ottobre, nel giorno del suo compleanno, un disastro nel campo della politica interna. In visita dal più vetusto ed esoterico fra i rabbini, Rav Yzchak Kadoury, un magico cabalista che è anche oggetto di culto superstizioso, Bibi si è piegato verso il suo centenario orecchio (lui invece ha compiuto soltanto 48 anni) e gli ha sussurrato, ignaro del microfono aperto della avventurare in quella terra misteriosa. Le spie tornarono, e riferirono a Mosè che gli abitanti erano troppo forti per poterli affrontare. Mosè mise a morte le spie, e andò avanti. È come - ha detto Netanyahu - se le spie fossero tornare indietro dicendo: Non solo abbiamo paura della loro forza, ma anzi, ci metteremo nelle loro mani per farci proteggere. Bella roba!. Istigazione alla violenza: per Israele è un'espressione che dall'assassinio di Rabin ha assunto un connotato fatale. Una specie di condanna millenaria del popolo ebraico a litigare, a separarsi fra laici e religiosi, tra destra e sinistra fino all'odio e al delitto politico, e persino fino al suicidio. Il fantasma della distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C. ad opera dei Romani, ma con la complicità oggettiva dello scontro mortale che esisteva fra gli ebrei, torna di nuovo nel dibattito politico d'oggi, duemila anni dopo. Ed eccolo qui ancora una volta, contro Netanyahu. Istigazione, asatà in ebraico: fu attribuita da Leah Rabin a Netanyahu subito dopo l'omicidio, e adesso è tutto un coro. La Rabin stessa è subito uscita malissimo: partito laborista, e Yossi Sarid, segretario del partito radicale, hanno preso un atteggiamento fra il disgustato e il paternalista: irresponsabile, incapace, poveraccio, come può fare il primo ministro? Shimon Peres, che in questi giorni ha inaugurato il suo ed è tornato così glorioso sullo scenario israeliano, anche lui ha mostrato un viso sprezzante e distaccato: ministro è questo?. Netanyahu si è difeso goffamente, senza riuscire a districarsi dal pasticcio in cui si è cacciato: volevo giudicare chi è ebreo e chi non lo è , ma solo denunciare la caduta del senso di autodifesa ha detto in sostanza a sua discolpa. Ma ieri in serata è arrivata anche una staffilata dal rabbino capo d'Israele. Israel Lau, che si è detto speranzoso di un qualche rimedio perché altrimenti agli ultimi giorni di Pompei. E anche il governo comincia a scucire qualche critica: Nathan Shranskij, che è un ministro nel governo di Bibi, ha detto che un buon ebreo o un ebreo poco buono certo non si misurano su un metro politico, e che comunque uno si aspetterebbe che il primo ministro sottolineasse ciò che unisce il popolo, e non viceversa. Al di là di quest'ennesima bordata di discredito, ormai quasi autoinflitto che cade su questo giovane e poco esperto primo ministro, di certo si nota in quest'uscita qualcosa di nuovo e di confessionale che era esattamente quello che Ben Gurion e i suoi successori avevano cercato con tutte le loro forze di evitare con fede illuministica: la divisione fra ebrei religiosi e ebrei secolari. Pareva che bastasse non pronunciarla mai, non evocarla. Ma come un'araba fenice cacciata dalla porta, essa è rientrata dalla finestra della storia. La parola , con tutti i suoi misteri, ha cercato per cinquant'anni di evitare queste forche caudine; ma dalla guerra del '67 il sogno dell'unità nazionale si è frammentato su opinioni politiche diverse, fino a diventare parte dell'inconscio di un premier. Voce dal sen fuggita. Fiamma Nirenstein

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