UN GRANDE SOGNO INAPPAGATO
lunedì 1 settembre 1997 La Stampa 0 commenti
NEI centenari in genere si loda, si commemora qualcosa di vetusto e
memorabile. Un'idea, una persona di cui si disegna finalmente
un'icona pronta per la storia, da cui non farsi più abbagliare, da
non odiare, e talvolta persino da scansare con il gesto di una mano,
come fatua e sorpassata dal tempo. Così non è per il sionismo,
l'unico la cui utopia non sia stata divorata dal secolo che si
spegne, l'unico che ancora oggi sia attuale, contemporaneo, anche se
ovviamente mutato da quando Theodor Herzl proclamò il 29 agosto di
cent'anni fa a Basilea l'avvento prossimo venturo (lo prevedeva per
il 1923, sbagliò di venticinque anni) dello Stato degli ebrei. C'è
chi ha scritto che egli splendeva trasfigurato, come un profeta
invaso dallo Spirito Santo (ce l'hanno anche gli ebrei e si chiama
Shechinà ) quando parlava a un gruppo etnico e culturale che non
conosceva affatto la propria nazionalità , ma conosceva invece le
mille dei tanti popoli ospiti dopo più di duemila anni di diaspora.
Due cose, se vogliamo fare un bilancio, stupiscono oggi dell'idea del
signor Herzl: il suo incredibile successo pratico e la sua invece
scarsa affermazione ideologica presso i non ebrei, l'inesausta
tempesta emotiva e politica che essa desta, specie presso
l'intellettualità europea. Dal punto di vista della riuscita, il
sionismo è certo stupefacente. Israele è uno Stato moderno a tutti
gli effetti, che ha un significato non solo per gli ebrei che hanno
compiuto la loro , ovvero la in Israele, ma ha anche
dato orgoglio nazionale e identità a tutti gli altri ebrei rimasti
ai quattro angoli del mondo. L'integrazione, ovvero il formarsi di un
carattere nazionale israeliano, è il miracolo più grande del
sionismo. I russi e gli europei dell'Est hanno compiuto immigrazioni
formidabili in ondate successive, eppure il carattere israeliano è
lontanissimo dal loro modo di esistere, con la sua iperattività , il
suo gagliardo e anche brutale dir pane al pane, il suo totale
disprezzo delle gerarchie che non siano funzionali, il suo senso
dello Stato e prima di tutto del sistema giuridico e dell'efficienza
di un esercito pulito, funzionale, apolitico. A loro volta i
marocchini, i libici, gli ebrei orientali fino agli yemeniti e agli
etiopi, con molti incidenti di percorso di cui hanno ancora una volta
pagato il gap fra il Nord e il Sud del mondo, pure laggiù si sono
integrati. Noi italiani, oggi così stravolti dal problema
dell'immigrazione, scorgiamo in quella terra, che pure è stata tanto
povera, un modello d'integrazione tecnicamente più ammirevole Il
sionismo, cent'anni dopo, ha triturato i miti di fondazione
collettivistici e messianici per mettere a frutto gli ingegni
provenienti da tutto il mondo in una rivoluzione tecnologica che fa
di Israele una tormentata ma determinata Silicon Valley, e uno Stato
che, nonostante sia costruito su strati sismici d'immigrazione, pure
può contare su infrastrutture gestite con appassionato senso del
loro ruolo sociale. Ed è certo vero che il sionismo religioso del
1967, quando nella Guerra dei Sei Giorni furono conquistate la Giudea
e la Samaria, ovvero il West Bank, è diventato più petulante ed
aggressivo: ma chi vive in Israele vede delle isole di nero in una
società che nei media, nel sistema scolastico, nelle università ,
nell'esercito, difende con le unghie e con i denti la sua laicità .
Tuttavia è evidente che c'è una parte importante del sogno sionista
che è rimasta inappagata e da questa ferita discendono tutte le
crisi che lo percorrono: la mancata accettazione da parte araba, e
prima di tutto palestinese, della presenza di uno Stato ebraico in
Medio Oriente. È stata l'abbacinata visione di un ruolo messianico
del popolo ebraico nell'area che ha portato prima a non capire che i
palestinesi non avrebbero mai accettato di diventare parte di uno
Stato non loro, restandovi figli di un dio minore; e poi a insistere
(come ha fatto fino a ieri anche Shimon Peres) nell'idea di un Medio
Oriente vivificato non dalla legge del Corano e dei suoi portaparola
politici e morali, ma dall'alieno, estraneo messaggio della libertà ,
dell'uguaglianza e della fraternità . Il sionismo si è illuso
lungamente di essere un messia per il mondo circostante, ignorando,
come nella storia sempre ha fatto l'Occidente, che ognuno si sceglie
i messia che crede meglio, buoni o cattivi che siano. Ha creduto i
suoi messaggi politici e sociali egualmente attraenti per se stesso,
per i palestinesi, per la Siria e per l'Egitto accecandosi nell'idea
di essere un dono piuttosto che un'estranea pietra di paragone, una
scheggia dell'Occidente con la sua ricchezza e la sua democrazia.
Certo Herzl non sapeva le mille guerre cui andava incontro il suo
popolo, gli stravolgimenti morali che in esse avrebbero sofferto i
suoi soldati mettendo l'etica nazionale in bilico fra brutalità e
pentimento, necessità di sopravvivere e esigenza di attenersi a un
ideale etico speciale, alto. Da qui è nato tutto il tormento interno
di Israele, le sue scuole di nuovi storici che in ogni guerra
scoprono nuove colpe di Israele, in ogni grande personaggio gravi
pecche. E tuttavia, se non fosse stato proprio per la carica
messianica del sionismo che dura tuttora, in tutti questi anni di
conflitti, di attacchi terroristici, di vita sul filo del rasoio,
come avrebbe potuto un Paese che non fosse nato da Allah mantenere
fortissimo il suo senso morale, non scegliere la strada della
vendetta, tentare la via della pace? Oggi, cent'anni dopo, e a
cinquant'anni precisi dalla creazione dello Stato, Israele ha intorno
a sé un'opinione pubblica mondiale molto corrosa e, più ancora che
Israele, il sionismo. Gli attacchi arabi, la folle, insinuante offesa
della risoluzione dell'Onu che eguagliava il sionismo al razzismo e
che solo da poco è stata cancellata; gli anni del vituperio
sovietico seguito dai suoi satelliti anche mediorientali del
sostantivo , hanno creato una pesante aura semantica. È
strano, ma nonostante che la Shoah abbia reso evidente la necessità
di finirla con l'ebreo errante, e nonostante che il popolo ebraico
abbia dimostrato in tutti i modi che là , proprio là , è la sua
patria, dove ha pregato di ritornare per duemila anni conservando,
unico fra tutti i popoli antichi, l'identità geografica nella
memoria, pure le guerre arabe si sono imposte come fatto
dimostrativo, determinante. La gente pensa spesso di un Paese che ha
case, scuole, strade, tribunali, partiti politici ormai così
consolidati e vitali, che forse non dovrebbe stare là , che vi si
trovi per motivi non giusti, che forse era meglio l'ebreo errante.
Non si tratta di una posizione politica, legata a questo o a quel
governo: ciò che conta molto di più è che
c'era; che . Qui Theodor
Herzl, ancora oggi, sconta la grande difficoltà che gli ebrei hanno
sempre avuto quando hanno detto di essere una nazione. Non un popolo,
né una cultura, né una religione: una nazione. Un'ideologia può
sbocciare e realizzarsi come un perfetto, purpureo fuoco d'artificio
in cent'anni; uno Stato può affermarsi e organizzarsi per miracolo
in cinquant'anni. Ma la credibilità non ha molto a che fare con i
miracoli. Penetrare la coscienza collettiva fino a conquistarla vuol
dire bucare definitivamente il pregiudizio antiebraico
cristiano-occidentale. In questo il sionismo non ce l'ha ancora
fatta. Fiamma Nirenstein
