UN FUNAMBOLO INNAMORATO DI SE STESSO ARAFAT SUL LETTINO
giovedì 20 dicembre 2001 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
RACCONTANO che Xavier Solana, richiesto a margine della sua ultima
visita
in Medio Oriente che intenzioni avesse Arafat, abbia risposto: « Io
sono un
fisico, non uno psicanalista» . Ed è in verità mirabile nella sua
oscurità
questo protagonista del nostro tempo. Ultimi due eventi: Arafat
sabato
davanti alle telecamere proclama una tregua, impone a Hamas di
cessare dal
terrore, esclama che ogni violazione sarà intesa contro di lui. E
qualcosa
si muove: 33 sedi di Hamas sono state chiuse nelle ultime 48 ore. Per
quel
che può valere, Hamas dichiara di sospendere gli attacchi suicidi.
Tuttavia,
i pesci grossi restano al largo. Però Arafat che fa martedì ? A una
grossa
manifestazione dichiara che è pronto a « sacrificare 70 vite di
palestinesi
per un israeliano» , che « siamo tutti martiri pronti al paradiso» e
con
formula davvero sinistramente contemporanea: « Difenderemo col sangue
e con
l'anima la terra santa» . A quel punto la folla scandiva lo slogan:
« Milioni
di palestinesi sono pronti a marciare da martiri su Gerusalemme» .
« Martiri»
nel linguaggio corrente in generale vuol dire oggi terroristi suicidi.
Arafat, secondo uno studio psicanalitico, è totalmente identificato
con la
Palestina, ed è « totalmente determinato» , dice, a raggiungere il suo
fine. È
anche un uomo dalla biografia controversa, la sua commistione da una
parte
col terrorismo e nello stesso tempo col processo di pace, la doppia
lingua
per conservare il consenso internazionale e il supporto del suo
popolo sono
stati la sua fortuna. Riesce a farsi considerare una vittima mentre
comanda,
e a dimostrasi un capo intoccabile quando è in difficoltà . Ammaestra
Colin
Powell a dichiararlo un interlocutore indispensabile, mentre proclama
il
« martirio» organizzato.
Ma il funambolismo ha un limite in se stesso. È innamorato di sé
stesso, e
quindi datato. Ovvero: Arafat narcisisticamente non vorrà mai essere
il
traditore del suo popolo che ora al 64% sostiene il terrorismo e
all'80%
vuole continuare l'Intifada. Così , evoca la parola magica del
vittimismo-trionfalismo: « Martire» , « shahid» . Una parola che risuona
in
tutto l'Islam. Nel proclamare la marcia su Gerusalemme, però , fa
sbagli
antichi, che sono costati cari al mondo arabo: Nasser nel ‘ 56 era
sicuro di
distruggere Israele e di unire tutta la nazione araba, Saddam nel ‘ 91
si
illudeva di vincere addirittura gli Stati Uniti, Gheddafi e gli
ajatollah
hanno ripetuto mille volte che l'Occidente imperialista perderà ,
perché non
ha il coraggio di combattere eccetera. Questa retorica è falsa, e
quindi
porta a sconfitte. Arafat, che pure intuisce la necessità di venire a
un
compromesso, ne dà segno, ma non rinuncia al consenso interno. La sua
immagine storica glielo richiede. Quello che gli sfugge è che il
funambolismo non funziona più , dopo l'11 settembre. L'Occidente non
scherza
col terrore, e ha meno paura di combattere, oggi. Che accadrà se
quell'esercito di martiri che evoca si mette davvero in moto? Lo
batterà lui
stesso, con la sua polizia? Troppo difficile anche per lui. La sua
strategia
per quanto sottile somiglia sempre di più a una deiezione
psicologica.