UN ESEMPIO DI STILE PERDUTO
giovedì 5 novembre 1998 La Stampa 0 commenti
QUEL morsetto dorato sul mocassino in pelle opaca, quel moschettone
d'argento da barca che serrava la borsa a bandoliera...
Un'adolescente fiorentina degli Anni Sessanta trovava in Gucci una
visione del mondo, un catalogo di certezze sociali quiete e forti.
Solo via Tornabuoni poteva inventare la figura dell'artigiano di
origine popolare, come Gucci o Ferragamo, che si fa ideologo del
costume aristocratico, ne registra stilizzandolo il modello di
vita. Gucci era italiano ma anglofilo, le sue scarpe echeggiavano
il gusto campagnolo, cavallerizzo, dei lord Acton e dei Berenson
che abitavano con i Guicciardini o i Corsini le colline di Fiesole
coperte di vite e ulivo. Gucci era un sogno azzurrino, un desiderio
di perfezione. Questo gusto, come quello di tante altre firme della
moda, si è nel tempo spoetizzato, è diventato piuttosto uno
status symbol mondiale, il marchio è stato ceduto. Ma questo non
cambia la lezione.
Sulla metafisica del morsetto d'oro, si è rovesciata una marea di
fango nero con sfumature giallastre. Un delitto non è per forza
volgare. Ma qui, con tutta la pietà che una donna piegata da una
condanna a 29 anni può ispirare, Patrizia Reggiani, la sua
fattucchiera Giuseppina Auriemma, gli altri disgraziati attori di
questa storia di sesso, delitto, quattrini a palate, matrimoni
d'interesse e ossessioni estetiche sono la fatale antitesi di tutto
ciò che la firma Gucci voleva incarnare.
Con gli abiti firmati copriamo la nudità dell'identità moderna,
compriamo una giacca targata Rossi o Bianchi per sfoggiare qualcosa
di sicuro, che ci definisca in senso positivo. E poi, tutto ad un
tratto, ecco che il marchio di raffinatezza si imbeve di indicibile
volgarità . In genere, questo è il destino degli idoli.
Fiamma Nirenstein