Fiamma Nirenstein Blog

Tutti contro uno: ma alla fine ha vinto Bibi

mercoledì 1 aprile 2015 Generico 0 commenti
Shalom, aprile 2015

Israele è una villa nella giungla, circondata dalla vegetazione selvaggia che avanza, da agguati di belve ad ogni angolo, ma la villa, anche se non mancano i problemi, è bella e pulita, moderna, dotata delle migliori invenzioni di hightech, e soprattutto ha un pregio fantastico: mentre tutto intorno la lotta per la sopravvivenza non conosce regole, nella villa vigono le leggi di democrazia, le sue regole sono inviolabili anche dalle più alte personalità. La villa risponde al principio della libertà e della parità dei suoi abitanti, e a quello di difendere gelosamente la propria indipendenza e la propria vita: la scelta delle elezioni della 20sima Knesset è stata proprio quella di non tentare avventure mettendosi alle prese o alla mercé di un mondo che in questo momento appare, data l’insorgenza dell’integralismo islamico e del terrorismo, particolarmente pericoloso, ma di scegliere il realismo, di guardare senza retorica alla vita del Paese come al bene supremo. E’ per questo che Benjamin Netanyahu ha stravinto, nonostante una campagna d’odio che lo ha morso ai garretti da tutte le parti, lo ha attaccato sul fronte dell’economia, della società, della strategia internazionale, della sua famiglia e del suo stile di vita, che ha coniato lo slogan: “chiunque fuorché Bibi”.

I risultati sono noti: 30 seggi sui 120 da cui è composta la Knesset al Likud; 24 alla sinistra guidata da Buji Herzog e da Tzipi Livni. Se si guardano i dati dei partiti minori, si nota un bel successo, che lo ha reso la terza forza, del partito unificato degli arabi, che prende 13 seggi, alla faccia di tutti gli strombazzatori dello “stato di apartheid” che Israele dovrebbe essere; di Kulanu, il partito di Moshe Kahlon, un bravo economista di origine irachena, già ministro, con una forte spinta sociale, che ne ha presi 10; non è andata bene al laico ex ministro delle finanze Ya’ir Lapid che invece dei precedenti 19 ne ha presi solo 11, sempre comunque un partito determinante per ogni coalizione.

Per il resto, si vede che i partiti di destra laici e religiosi hanno ceduto qualcuno dei loro seggi al Likud, compreso Naftali Bennet, che si era qualificato come il partito che difende gli insediamenti e sostiene che la divisione del territorio è impossibile: è passato da 11 a 8. Un vero disastro è stato quello del partito del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, Israel Beitenu, che ha cercato di recuperare con una campagna dai toni durissimi, e invece dei vecchi 13 seggi ne ha presi 6. Un pesante scandalo giudiziario dei suoi lo ha messo nei guai. Adesso tuttavia sia Bennet che Lieberman e anche Kahlon e Lapid si battono per seggi fondamentali, gli Esteri, la Difesa, l’Economia perché il loro assenso può dare a Bibi i numeri per formare un governo forte: ma anche gli uomini del Likud vogliono i loro ruoli, soprattutto dopo che ce l’hanno a fatta, con sforzo enorme, a seguire BIbi che chiamava a raccolta per controbattere l’ondata negativa su toni molto alti: questo è un referenedum sulla leadership che può costare molto caro al Paese, ha messo in guardia Netanyahu. Bibi infatti, hanno detto in Israele, quando i sondaggi davano 24 seggi alla sinistra e 21 a lui, ha chiamato “gevalt”, “al soccorso”!, e ha battuto tutti gli angoli del Paese con l’energia tipica della sua storia così speciale e controversa: sayeret matkal, l’unità speciale che agisce nelle situazioni più pericolose, come quando liberò, nell’unità insieme a Ehud Barak, gli ostaggi dell’aereo della Sabena con un blitz fantastico; fratello di Yoni, il comandante caduto a Entebbe; figlio del grande storico dell’antisemitismo Ben Tzion Netanyahu; audace, combattente ambasciatore dell’ONU; e, via via, ministro varie volte, soprattutto famoso per aver sanato l’economia con una serie di riforme liberali; per la prima volta primo ministro dal 1996 al ‘99, e poi di nuovo nel 2009 sempre esplicitamente determinato a difendere l’esistenza dello Stato d’Israele come nazione del popolo ebraico, e a combattere i pericoli che corre nel confuso panorama mediorientale.

 Bibi è il più deciso fra i combattenti contro il nucleare iraniano, molto attento alle continue minacce di morte degli ayatollah; altrettanto deciso contro l’aggressività mortale armata di missili degli Hezbollah; contro il terrorismo sunnita che comprende anche quello di Hamas; contro il nuovo terrorismo sunnita di stampo al Qaeda o Isis che alita sul collo di Israele. Coi palestinesi, Bibi è sempre rimasto fedele alla famosa frase “Itnu icablu” ovvero “daranno, riceveranno” che oggi gli fa pensare che non sia ancora il tempo, data l’ostilità manifesta di Abu Mazen e il suo rifiuto a riconoscere uno Stato Ebraico, e data la sua alleanza con Hamas, di pensare a dividere la terra per costituire uno stato palestinese adesso. Non a caso Bibi quando Sharon compì nel 2005 lo sgombero da Gaza si separò dall’antico mentore, e la storia, dato che Hamas ha reso Gaza uno stato islamista dedito alla distruzione di Israele, gli ha dato ragione. Gli israeliani, che sono decisi a vivere una vita normale, ma non a costo della loro vita e di quella dei loro figli, hanno seguito il senso di realismo di Netanyahu, che come loro è”un israeliano normale”, con le idee chiare sulla necessità ma anche la difficoltà di vivere una vita civilizzata e democratica in un quartiere orientale. Ma attenzione: non si pensi che con questa elezione le speranze di pace sono più distanti di quello che sarebbero state se Buji e Tzipi avessero formato il governo. Innanzitutto ricordiamoci che la pace con l’Egitto fu firmata da Begin, lo sgombero di Gaza da Sharon: due leader di destra.

Inoltre fu Netanyahu a decidere lo sgombero di Hevron, forse la più difficile fra tutte le cittadine palestinesi da cui se ne andò, e tutti se lo sono dimenticato, l’esercito israeliano. Fu sempre lui ad andare fra molte polemiche a stringere gli accordi di Wye Plantation con Arafat nel settembre del ‘98. Adesso piace a Obama, animato da spirito di vendetta perché Netanyahu osa mettere in discussione la prospettiva del suo accordo con l’Iran (che lascerebbe agli ayatollah 60mila centrifughe) affermare che sarà l’America a dare uno Stato ai palestinesi se Israele non glielo vuole concedere. Ma Netanyhu ha specificato: oggi come oggi lo stato delle cose non consente di vedere la prospettiva vicina, ma Israele riafferma il suo impegno: ed è difficile dargli torto se si conosce, come Obama dovrebbe conoscere, la valanga di odio obbligatorio, senza spazi, che emana dall’opinione pubblica palestinese, non una parola di pace, non un gruppo che voglia colloquiare, solo la richiesta all’ONU di riconoscere, sopra la testa degli accordi diretti, uno Stato; e anche la richiesta di fare di Israele uno stato carogna con una condanna della Corte Internazionale dell’Aja. I cittadini d’Israele forse a differenza dell’opinione pubblica internazionale, ha ben presente gli ultimi terribili attentati di parte palestinese a cittadini inermi per strada o alla sinagoga e dopo, il pagamento mensile, dal bilancio ufficiale della Autonomia Palestinese, di stipendi ai terroristi in carcere.

Ma si va sempre più delineando, dall’Egitto, che ha dichiarato guerra a Hamas, alla Giordania, e persino all’Arabia Saudita un fronte arabo i cui interessi coincidono con quelli di Israele. I colloqui sono diventati più intensi, la battaglia comune contro l’integralismo islamico, contro un Iran imperialista e contro l’Isis, la necessità che il Medio Oriente sia meno tempestoso e insanguinato, sono un cemento che potrebbe costruire finalmente una casa comune. E allora chissà, anche se è difficile credere che dopo tanti anni di rifiuto la porta si possa aprire, che Abu Mazen invece di sognare di chiudere e distruggere la villa in mezzo al Medio Oriente, decida di costruirne una a sua volta, senza pretendere tutto il giardino.

 Lascia il tuo commento

Per offrirti un servizio migliore fiammanirenstein.com utilizza cookies. Continuando la navigazione nel sito autorizzi l'uso dei cookies.