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Tutti contro Bibi

lunedì 16 settembre 2019 Il Giornale 0 commenti
Il Giornale, 16 settembre 2019

In Israele si vota fra due giorni: sono elezioni fatali, ma non perché le prospettive dei contendenti siano diverse, come si usava nel passato. Lo scontro vedeva in campo figure come Shimon Peres, che credeva nella condivisione di un futuro pacifico con i palestinesi, o dall'altra parte un campo scettico e disincantato, devoto alla difesa del nuovo, agognato Stato. Oggi, specie dopo il fallimento di Gaza, è idea comune che uno Stato palestinese sarebbe una piattaforma di lancio del terrorismo specie iraniano. Le agende basilari dei due contendenti principali, Benjamin Netanyahu e Benny Gantz non sono diverse, tant'è vero che se uno ascolta la campagna elettorale, che in Israele viene trasmessa più volte al giorno chiusa in un contenitore, hanno per oggetto sempre e comunque soltanto un tema: Netanyahu, Netanyahu e ancora lui. Il suo nome accompagnate da mille accuse e sberleffi, viene ripetuto ad ogni istante dai suoi contendenti. Cosa non si è detto: corrotto, egocentrico, cinico, pericoloso, antidemocratico. Ma alternative politiche non ce ne sono: nessuno salvo il Meretz ormai accompagnato nella stessa lista da un Ehud Barak trasformato e diverso torna alla formula " due stati per due popoli", nè all'abbandono della Giudea e della Samaria. Nessuno ipotizza la divisione di Gerusalemme, o mostra particolare propensione a considerare i palestinesi un interlocutore disposto al compromesso. Troppo terrorismo, troppe dichiarazioni estreme di Abu Mazen accompagnate dal finanziamento e dalla lode istituzionale degli shahid, e soprattutto troppo chiaro il nesso fra l'incombente pericolo iraniano e ogni tipo di ostilità dal confine, quella di Hamas e della Jihad islamica a sud e a nord quella degli Hezbollah.

Questa equivalenza di obiettivi nel campo della sicurezza fa sì che la sinistra non abbia più bisogno di essere strategicamente alternativa per votare contro Bibi: un cittadino può benissimo apprezzare che egli abbia riaperto la questione iraniana, portato gli USA al riconoscimento di Gerusalemme come capitale, ottenuto il riconoscimento del Golan, evitato la guerra a Gaza, aperto strade diplomatiche col mondo arabo, USA e europeo mai viste prima.. e sognare che anche altri, i suoi, potranno fare lo stesso. E che diamine, pensa il cittadino, anche Benny Gantz che è stato Ramat Kal, capo di Stato maggiore, saprà bene come rispondere, cosa fare, quando Hamas ci bombarda o quando dalla Siria l'Iran ci attacca. Eppure, data la capacità di Bibi di mantenere la pace e la deterrenza, resta il dubbio che Netanyahu sia il migliore nella stabilità e la difesa, e questo nè il suo migliore asso.

Ma la parola d'ordine è Bibi delendus. Si portano molte ragioni semplificate per cui lo si deve battere ma al fondo c'è un messaggio culturale globale, un invito a Israele a cambiare pelle. Il suo profilo, agli occhi dell'UE, dell'ONU, dei democratici americani, della sinistra europea, della società culturale internazionale da Hollywood alle estati romane,  è fastidiosamente legato a ciò che non piace quando si appartiene all'elite mondiale ambientalista, intersezionalista, femminista, Lgbt, anticoloniale, antirazzista, bianca. Non importa che in Israele non ci sia traccia di svolta di destra, o che abbia stabilito ottimi rapporti con l'Africa e con l'India: Netanyahu è un imperialista di destra. Parla di Stato degli Ebrei, diffida dei palestinesi, ce l'ha con l'Iran, dice pane al pane, minaccia e colpisce l'Iran, tutte cose fastidiose all'orecchio globalista. Di destra viene giudicata la sua spinta alla nuova Costituzione che stabilisce che Israele è lo Stato ebraico e non "di tutti i cittadini", anche se i diritti di tutte le minoranze sono garantiti; la democrazia israeliana è così forte da andare a elezioni due volte in due mesi mentre un bombardamento mediatico colpisce il suo PM, che reagisce solo col parafulmine delle sue argomentazioni, ma lo si accusa di voler controllare l'informazione. Bibi può veramente perdere domani perchè c'è un'ansia di giuocarsi l'identità alla roulette della normalizzazione, di berla nella modernizzazione egualitaria emarginando l'elemento religioso che davvero ha esagerato. Gioca anche il dna socialista di Israele, così simpatico e amato nell'immagine di Ben Gurion e anche di Ytzchak Rabin: ma questi protagonisti non avrebbero mai dato un centimetro di terra, tantomeno di Gerusalemme senza contropartita chiara, avrebbero fatto scudo a Gerusalemme e alla Valle del Giordano, avrebbero rivendicato ogni insediamento utile alla difesa nonostante la disapprovazione mondiale. Ma il cinquanta per cento qui cova il desiderio di rientrare in quell'universo globalista e internazionale di cui Peres era un campione (Rabin era molto meno sognatore e meno membro del jet set), in cui "Stato nazione" è una brutta espressione, si deve glissare sull'odio islamico, si può seguitare a sostenere che parlarne è islamofobia, e dire che l'antisemitismo è soprattutto di destra, nonostante ogni prova contraria. Quasi tutto l'Occidente la pensa così.

Oggi, Israele è un miracolo: pensare che trovi il modo di far fare ai suoi disabili il servizio militare, che riesca a inviare a tutti nel mondo squadre di salvataggio funamboliche, che accolga palestinesi, siriani, bambini di Gaza nei suoi ospedali è segno di una fantastica concezione del proprio ruolo nel mondo. Netanyahu ha tenuto in piedi la famosa "villa nella giungla", con incredibili capacità tecnologiche, un'accigliata maschera verso l'Iran, un esercito umano, una società filantropica.  Ma non si porta più. Un paio di giorni fa ho chiesto al mio parrucchiere che pensasse delle prossime elezioni. Qui devo darmi delle arie: Motti (nome falso) è piazzato nel cuore della più vecchia e anche più internazionale borghesia gerusalemitana e ebraica mondiale. E' un tipo che sa come parlare, muoversi, civettare: con circospezione non conoscendo la mia opinione ha risposto però quello che si deve dire nei circoli per bene. Cioè: speriamo che l'era di Bibi si chiuda qui, e poi ha mormorato parole come "pace", "corruzione", "Trump"... E ancora un po' di quel vocabolario che pertiene alla martellante campagna in corso, al discorso pubblico per bene, politically correct. Le signore, i giornalisti, i politici emarginati nel corso degli anni, gli ex generali, un'elite molto consistente, i musicisti, gli psicanalisti, l'università, sono vessilliferi della sensazione che la parola "destra" è spesso vissuta come sinonimo di ignoranza di volgarità, di mercato della frutta (allo "Shuk ha Carmel" tutti votano per Bibi fra i bancarellari!), del populismo. Non saranno contro Bibi, ma è diventato difficile difenderlo. La battaglia anti Bibi ha traslocato dagli USA e dall'Europa la guerra fra populisti e antipopulisti senza capire che Netanyahu non può indossare quella veste. La sua storia familiare, militare e politica raccontano tutta un'altra storia, e il suo ruolo è invece frutto di un'identità israeliana forte, difensiva, nazionale e laica. Citando le teorie di Yoram Hazony, il suo è un nazionalismo che nasce dalla lealtà nazionale e quindi si autolimita. Netanyahu non è un dittatore anche se è un leader leonino, che è stato al potere 13 anni. C'è stato tanto tempo, e  soprattutto è "di destra", peccato mortale, ma ha guidato bene. Se, come può essere naturale perderà, sarà una sostituzione di dna, di linfa culturale di Israele stesso. Abu Mazen ha detto che non desidera altro.

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