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TRE LEADER IN LOTTA CONTRO IL TEMPO Missione impossibile in America Senza un accordo finale si rischia la guerra

martedì 11 luglio 2000 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME E dunque Barak, che solo quattordici mesi fa aveva vinto da trionfatore, paga oggi il suo personale tributo alla pace perdendo il governo di larga coalizione con cui sperava di portare Israele intera alla pace. Non è stato così : e avviandosi a Camp David solo, si trova di fronte un Arafat che mai ebbe, se non con Rabin, una maggiore disponibilità in un leader, che ancora non è stata ricambiata. Ma adesso i due stanno per incontrarsi e sanno che ci siamo davvero, che è ora o mai più . E’ ben strano che alla fine, viene sempre un giorno dei leader, un giorno delle grandi personalità , in cui le dinamiche democratiche di un governo o di un parlamento ribelle, oppure le voci irate del popolo vengono messe da parte perchè la storia si fa viva, chiama a decisioni che prescindono quasi da tutto. E’ quello che deve accadere in questi giorni. Barak parte sconfessato dal suo governo, dopo aver orgogliosamente gridato alla Knesset che lui cammina sulle tracce di Ben Gurion, di Begin e di Rabin su un sentiero voluto dal popolo, quello della pace, e che ormai quasi non sente più il rumore della politica. Arafat si lascia dietro una scia di rimbombanti mugugni non solo palestinesi, ma provenienti da tutto il mondo arabo, e va firmare il destino di un popolo che ha portato sulla strada dello Stato Nazionale senza esitazione per tanti anni, e ora si appresta a fare i conti con la possibilità reale di arrivarci, di fronte ai suoi e soprattutto di fronte alla sua vera volontà di far la pace con un Paese e con un intero universo, quello occidentale, che alla base non ama affatto. Clinton, anche lui è là contro tutti. Ha ascoltato almeno cento consigli di rinunciare al summit fatale, ha esaminato carte molto ben motivate, ha ripreso in esame per l’ ennesima volta problemi praticamente senza soluzione. Eppure ha voluto Camp David a tutti i costi, consapevole che si tratta della pace più simbolica per il mondo intero, quella che lo può portare nei libri di storia come uno degli uomini che ha contribuito a un assetto moderno dei rapporti fra mondo mussulmano e mondo ebraico cristiano. Tutti e tre i protagonisti sono in lizza con la storia, e Barak e Arafat anche per la sopravvivenza politica, e in verità questa è la migliore carta che la pace ha in mano contro una quantità di fatali controindicazioni. Le difficoltà sono quelle della contiguità territoriale dello Stato Palestinese, e quindi l’ eliminazione delle colonie che ormai sono villaggi che hanno trentacinque anni di vita con 200mila abitanti, case, scuole, attività produttive. Barak ha fatto l’ impossibile superando i suoi maestri di gran lunga arrivando, sembra, a promettere il 94 per cento della Terra, ma restano ancora gruppi di insediamenti. I profughi sono stati contati a tre milioni secondo le stime dell’ UNRWA, l’ organizzazione che pur aiutandoli a sopravvivere, non ha mai cointribuito a smantellare i campi profughi neppure dentro la già funzionante Autonomia Palestinese: essi sono un’ arma politica accuminata, e il lor numero, ormai contato a milioni, così come viene gettato sul tavolo è un ostacolo incommensurabile. Quanto a Gerusalemme, da anni palestinesi e israeliani si sono trovati intorno ai più svariati tavoli e immaginato soluzioni creative. Ma il rais è inopinatamente tornato alla richiesta dell’ intera Gerusalemme Est, secondo i confini del 67, forse spinto dalla crescita dell’ Islam religoso e da un vento di rivincita nato sulle canne dei fucili degli Hezbollah. Barak è tuttavia nello stesso spirito in cui era Begin quando capì che la pace con l’ Egitto era più importante della magnifica area del Sinai. Sa anche che una volta che si parte con una missione di vita o di morte, se si torna a casa senza niente di fatto, è peggio di qualsiasi scoinfitta: per lui vorrebbe dire uno spappolamento politico e probabilmente anche umano. Se invece fa un accordo, anche il più generoso e deludente per la destra, può sperare di indire elezioni vittoriose e un referendum vincente. E’ nelle mani di Arafat. Anche Arafat, se non fa la pace mostra il fallimento della sua strategia, dà ragione ai suoi avversari interni. Potrebbe tentare di rifarsi con uno scontro armato, ed è per questo che secondo le informazioni dell’ intelligence israeliana sta preparando reparti armati specie a Gaza: ma questo non ne farebbe altro che un eroe locale, non un eroe mondiale come egli si raffigura a se stesso e al consesso internazionale. E Clinton dunque è stato coraggioso a giocarsi gli ultimi mesi di lavoro in questa partiota, ma non l’ ha fatto al buio. In una recente conversazione con il presidente ameiricano, Arafat gli ha detto « io non sono un negoziatore, sono uno che prende decisioni» . E Barak ha perso la destra perchè le sue decisoni, si sa, le ha già prese tutte, compresa quella della bandiera palestinese sul Monte del Tempio che ha fatto sccappare i religiosi.

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