Tre colpi al cuore d'Israele
domenica 5 novembre 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV - Yitzhak Rabin, il primo ministro dello Stato d'Israele, è morto ucciso da una mano omicida. L'incubo si è compiuto. La notte d'Israele, le sue strade sono piene di gente che grida, alcuni chiedono perché Dio? Perché? Intriso di sangue, colpito da tre pallottole, si è accasciato in fondo alla scaletta per cui era appena sceso dal grande palcoscenico sul quale aveva appena cantato, la canzone della pace, insieme a una piazza di 75 mila persone. L'aveva cantata insieme al suo compagno di strada, Shimon Peres, Premio Nobel come lui per aver condotto Israele, a cinquant'anni dalla sua nascita, sulla via della pace. Quando, durante la grande manifestazione, la cronista si era avvicinata al primo ministro, era stata frugata e interrogata dalla polizia come tutti gli altri giornalisti: gli uomini della sicurezza erano in guardia. Le minacce a Yitzhak Rabin erano ormai diventate terribili, insistenti: traditore, assassino, persino nazista lo chiamava la folla dei nemici della pace, le formazioni di estrema destra fattesi sempre più incombenti. Gli uomini del partito di Rabin avevano formato degli speciali drappelli che, oltre alle guardie dei servizi di sicurezza, difendessero il capo ventiquattr'ore su ventiquattro. Ma non è servito. L'escalation della violenza verbale, la follia delle manifestazioni dei setler, era diventata ultimamente oggetto continuo della meraviglia di Rabin, delle sue stupefatte e scandalizzate proteste. Ma niente di più.
Sembrava che mai e poi mai, perché mai è accaduto dalla fine della seconda guerra mondiale, un ebreo avrebbe colpito con il fuoco, assassinandolo, un altro ebreo: l'Olocausto ha posto il suo tabù su questa eventualità. Invece è accaduto: l'assassino si chiama Ygal Amir ed è uno studente poco più che ventenne dell'università di Bar Ilan, il centro di studi religiosi di Tel Aviv. La polizia lo ha subito circondato e portato via: era calmo, quasi indifferente, mentre le sirene urlavano l'inizio della tragedia. La manifestazione di ieri era stata voluta e preparata a lungo anche da Rabin e Peres: essi volevano dimostrare a Israele e al mondo intero che la pretesa della destra che il processo di pace fosse stato delegittimato dalla volontà popolare, era privo di fondamento. Troppo insolenti erano state le ultime manifestazioni. Ma Rabin ce l'aveva fatta: una folla straripante ha riempito la piazza più grande di Tel Aviv e forse di tutta Israele. "Voglio dirvi che sono anch'io emozionato e voglio assicurarvi che lo Stato è qui insieme a voi che manifestate contro la violenza e per la pace. Vi parlo da uomo che ha fatto la guerra", così Rabin ha parlato alla folla, "da generale, da ex ministro della Difesa, e oggi da capo dello Stato che ha visto morire tanti dei nostri ragazzi. La pace è l'unica strada possibile, è la strada che abbiamo intrapreso, è la strada che la storia ci indica e della quale si sono aperte grandi possibilità", Rabin aveva gridato con la sua voce roca da fumatore e scabra, da soldato. "Abbiamo ricevuto nel 1992 un mandato da cui non ci sposteremo. La pace non è solo nelle preghiere del popolo ebraico, ma è anche in cima a tutte le sue aspirazioni".
La folla ha sgomberato la piazza Malchei Israel, la piazza dei re d'Israele, senza rendersi conto che il loro leader, uno degli uomini più importanti della storia del popolo ebraico, forse quello che insieme a David Ben Gurion ha più segnato il destino d'Israele, veniva trasportato verso l'ospedale Ichilov in fin di vita. Sua moglie Lea gli era accanto. Rabin era l'uomo che per il suo passato e anche per il suo portamento da soldato aveva dato al popolo d'Israele la fiducia di avvicinarsi ai nemici, di stringere la mano a Yasser Arafat promettendo che anche la sicurezza sarebbe stata mantenuta. Nessun altro sarebbe stato creduto, se non Rabin: solo lui portava nel volto, nell'eloquio, tutto quello che è più familiare agli israeliani. La guerra, la sofferenza, ma anche la determinazione innovativa e l'entusiasmo tipici di uno Stato così giovane. La sua stretta di mano con Arafat, tanto carica di dolore, quel 13 settembre del 1992, a Washington, col corpo rivolto all'indietro verso la memoria e la sofferenza delle decine di migliaia di famiglie colpite dal lutto, era per gli israeliani l'unica stretta di mano accettabile, l'unica possibile, e ogni volta in cui durante questi due anni gli attentati dell'integralismo islamico hanno falciato nuove vittime con le loro bombe umane, compiendo stragi sugli autobus fin nel cuore di Tel Aviv, soltanto l'implacabile determinazione di Rabin, quel suo militaresco ripetere, noi continuiamo sulla via della pace, ha portato alla firma della seconda parte dell'accordo e quindi al ritiro dell'esercito dai Territori Occupati. Quei Territori Rabin li aveva conquistati nel 1967, da Capo di Stato Maggiore, insieme a Moshe Dayan. Sua era anche questa parte della storia d'Israele; e sua la storia crudele e valorosa della fondazione, quando nel 1948, combattendo contro gli inglesi e contro gli arabi, aveva conquistato i villaggi da cui i palestinesi erano stati messi in fuga. Due volte Capo dello Stato, fu sua anche la sconfitta che, dopo trent'anni di governo di sinistra, consegnò il potere esecutivo alla destra nel 1977. E nel 1992 fu sempre di Rabin la vittoria con cui la sinistra conquistò il governo, e fu sua l'intraprendenza con cui immediatamente insieme a Peres intraprese il processo di pace; sotto il suo governo i palestinesi, i giordani, i marocchini, e tanti altri cittadini dei Paesi Arabi, anche di quelli più lontani, hanno cominciato a guardare a Israele come a un vicino e anche come a un partner economico e non più soltanto come a un nemico da distruggere. Quella parte d'Israele che ha sostenuto e seguito Rabin sulla difficile strada della pace, in queste ore, orfana, grida e piange nelle strade di Tel Aviv e di Gerusalemme. La Israele che si è invece battuta contro la pace, si trova le mani lorde del sangue di un uomo grande, contro cui erano state scagliate accuse e minacce irresponsabili anche da chi non pensava a un epilogo così terribile. Su di loro, in queste ore, si stende l'angoscia e la paura, il senso di solitudine che fa tenere la testa fra le mani anche agli uomini che danno le notizie alla televisione, giornalisti avvezzi, come tutti noi cronisti che scriviamo dal Medio Oriente, a dare conto di guerre maledette, di decine di attentati, un Medio Oriente da cui Rabin voleva asciugare, come tante volte ha ripetuto, il pianto. Ci siamo trovati a pochi metri da Rabin nei suoi ultimi minuti di vita: era felice, vittorioso, stretto al suo compagno di strada Shimon Peres e alla folla che gli prometteva che la pace avrebbe vinto. Lo abbiamo visto nel suo momento più alto di gloria, mentre sotto il grande palcoscenico della pace lo aspettava il destino di Gandhi, di Kennedy e di Sadat. Dopo l'assassinio di Kennedy, l'America ha conosciuto un tempo di delitti. Non si può sapere quello a cui Israele va incontro adesso che è rimasta orfana, adesso che il parricidio è stato compiuto per mano di un ebreo. Un Consiglio dei ministri, insieme al Presidente della Repubblica, è riunito in queste ore all'ospedale. Ma Rabin non potrà più dire loro la sua parola, dura e definitiva, forse la Parola migliore che il mondo abbia ascoltato negli ultimi anni.