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Tra nuove speranze e problemi irrisolti, i 50 anni dello Stato sognat o da Herzl a fine '800: un miracolo figlio del kibbuz ISRAELE nel giardino assed iato

giovedì 30 aprile 1998 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME QUANDO si raggiungono i cinquant'anni, specie se si è avuta una vita tormentata si viene spesso assaliti da una crisi di identità . Chi sono veramente? Ho fatto tutto quello che avrei dovuto fare? Che cosa ho sbagliato? Ho capito ciò che mi accadeva lungo la strada? Mi sono comportato bene o male? E adesso, che devo fare di me stesso? Questo sta capitando a Israele mentre ricorda e celebra quella notte del 14 maggio 1948 che secondo la data ebraica viene festeggiata il 30 aprile. È una storia così straordinaria e controversa quella dello Stato di Israele, che il tempo, invece di semplificare la comprensione dei fatti, li ha mescolati, rigirati e organizzati in modo tale da essere leggibili da più parti. Così c'è chi festeggia e chi rimpiange la creazione dello Stato, chi come i palestinesi e il mondo arabo la considera una disgrazia, chi come i religiosi "haredim" un peccato mortale, chi come la sinistra pacifista un Paese che non ha ottenuto uno dei suoi fondamentali obiettivi cioè la pace con i vicini, chi come la maggioranza del mondo democratico, in Israele e ovunque, uno stupefacente successo accompagnato da contraddizioni; un Paese che nato da un'ideologia laica ottocentesca come il sionismo, uno dei tanti movimenti nazionali dell'epoca, e più tardi sulle ceneri dell'Olocausto, ha messo insieme sulla sua terra d'origine un popolo esiliato duemila anni prima, sterminato per più della metà , pronto a scomparire o a essere assimilato. E adesso è una democrazia moderna, con un high tech formidabile, con banche, ospedali, istituzioni giuridiche e di assistenza pubblica che fanno l'invidia del mondo. Lo Stato di Israele fu proclamato al museo di Tel Aviv da David Ben Gurion alla mezzanotte del 14 maggio 1948. In poche ore cinque eserciti arabi penetrarono armi in pugno i confini che l'Onu con una risoluzione del novembre 1947 aveva assegnato al nuovo Stato: l'Iraq, la Giordania, il Libano, la Siria e l'Egitto speravano così di ottenere con la forza ciò che la diplomazia internazionale aveva loro negato. E si avvalsero per questo anche della resistenza dei cittadini arabi palestinesi che vivevano dentro i nuovi confini di Israele decretati dall'Onu: consenzienti o riluttanti, questi rifiutarono la divisione in due fra arabi e ebrei del territorio lasciato libero dai britannici, che si erano stabiliti in Palestina nel 1917 dopo secoli di impero turco. Subito la guerra diventò un elemento fondante nella storia di Israele. Oggi, rispetto a quel momento, restano aperte due grandi questioni. La prima è quella sollevata dall'audace scuola revisionistica guidata dal professor Benny Morris dell'Università di Gerusalemme: gli arabi residenti nei villaggi della Palestina furono sì incitati dai Paesi Arabi ad abbandonare le loro case, ma furono anche sistematicamente espulsi dagli israeliani sulla punta della baionetta, e non come vuole la tradizione caldamente invitati a restare. Seconda questione: non sarebbe stato più umano e più saggio da parte araba accettare la partizione di una scheggia di terra che per gli ebrei era tutto, e per il mondo arabo una piccola superficie, e oggi non sarebbe necessario superare definitivamente l'atteggiamento di rifiuto che fonda la visione araba degli ebrei come estranei e nemici? L'Olocausto degli ebrei è stato certo molto importante per arrivare a quella notte del '48, ma i motivi più lontani nascono nell'enorme forza dell'ideologia nel nostro secolo, dell'ideologia sionista in questo caso, nata a sua volta nell'ultimo disperato tentativo ebraico di integrarsi nella società europea ricevendone in cambio soltanto offensivi rifiuti e persecuzione. Come scriveva Lev Pinsker, medico di Odessa che divenne un fondatore dell'ideologia sionista dopo aver tentato con tutte le forze la strada dell'integrazione: "L'ebreo è considerato dai vivi come un morto, dagli autoctoni come uno straniero, dagli indigeni sedentari come un vagabondo, dalla gente benestante come un mendicante, dalla povera gente come uno sfruttatore miliardario, dai patrioti come un senza patria, e da tutte le classi come un detestabile concorrente". L'affaire Dreyfus, i pogrom dell'Europa orientale portarono Teodoro Herzl, un giornalista e intellettuale ungherese che ebbe l'incredibile visione dello Stato ebraico mentre ancora gli ebrei non possedevano nulla, a scrivere Lo Stato degli ebrei e a cercare l'appoggio del mondo per la sua idea che gli ebrei sono prima di tutto una Nazione e che il loro desiderio di tornare in patria sia una battaglia politica primaria e indispensabile. Nel 1897 si aprì a Basilea il primo congresso sionista. Il suo inno era Hatikva, il canto della speranza, scritto sulla musica della Moldava di Smetana. Dal 1882, quando da Odessa giunsero sedici giovani a Haifa, decisi a lavorare la terra lasciandosi indietro il passato chiuso nei ghetti e chino sui libri sacri, le ondate di immigrazione si susseguirono dalla Russia e dai Paesi dell'Est. Nel 1905 la seconda Aliah (in ebraico vuole dire "salita" verso la patria e la liberazione) portò in Palestina 40 mila giovani. Nel 1909 fu fondato il kibbuz Degania, la prima comunità socialista ebraica. È qui che nasce veramente lo Stato di Israele, qui si definisce un tipo umano che ha fatto il miracolo di attaccarsi a questo scoglio col puntiglio di farne un giardino sia pure assediato, e che è rimasto e rimarrà unico nella storia: uomini e donne proiettati verso il destino mitologico del socialismo, ma con una vena messianica tipica dell'ebraismo. Persone che in genere non credono in Dio, ma battono la nuova terra palmo a palmo con la Bibbia in tasca per ritrovare le loro radici, e credono piuttosto nella tradizione ebraica come una base ideale per un'idea sociale egualitaria, pensosa, attiva. Che adorano la terra su cui posano i piedi perché è l'unica che sia mai stata loro, e che la fanno produrre con le unghie e coi denti, dormendo sotto vecchie tende rattoppate, applicando alla propria vita una visione puritana e un rigore morale che sconfinano in moralismo e nel rifiuto dei beni materiali. Se Israele non avesse avuto a disposizione il kibbuz e il suo tipo d'uomo, che si esemplifica molto bene in David Ben Gurion, il primo premier israeliano, ma anche in Moshe Dayan, o in Golda Meir, o in Izahak Rabin, difficilmente avrebbe potuto resistere. La necessità assoluta di una patria fece di questi uomini delle volpi e dei leoni. Ben Gurion seppe negli anni precedenti la fondazione dello Stato tentare da una parte di camminare in pace con gli arabi, e dall'altra, una volta visto che la presenza ebraica era vissuta come un'invasione coloniale, utilizzare invece la possibilità che gli inglesi fornivano agli ebrei di unirsi a loro nella guerra contro il nazifascismo per poi costruire un esercito scaltro e ben allenato, l'hagana, da usare contro gli inglesi stessi. Seppe unire sotto di sé tante e diversissime fazioni ebraiche, alcune più morbide, altre decise a cacciare via il protettorato inglese a forza di attentati terroristici, facendosi da tutti consegnare le armi; e tuttavia sparò sulla nave Altalena carica di dissidenti di destra armati per mantenere in sella la democrazia. Seppe organizzare l'immigrazione ebraica clandestina quando l'Inghilterra si era accorta che il rifiuto arabo era invincibile e quindi aveva creato un cordone sanitario lungo le coste d'Israele, con uomini in divisa decisi a non far scendere dalle navi le migliaia di scampati dall'Olocausto. Creò intorno ai profughi un'enorme tensione internazionale, e fu sull'onda dell'orrore che il mondo provò nel vedere gli ebrei provenienti da Auschwitz ricacciati in mare dagli inglesi che, mentre si moltiplicavano gli attacchi arabi agli insediamenti ebraici, fu nominata una commissione dell'Onu che studiasse la possibilità di uno Stato ebraico in Palestina. Da lì il 29 novembre scaturì la partizione rifiutata. Votarono a favore 33 Stati, tra cui Usa e Urss e molti Paesi europei, i contrari furono 13. L'atto di nascita dello Stato di Israele fu dunque la guerra d'indipendenza del 1948, in cui gli ebrei di Gerusalemme stretti d'assedio nelle loro case rischiarono lo sterminio e la morte per fame. Solo la costruzione di una strada alternativa sulle montagne permise di portare la salvezza agli abitanti ebrei di Gerusalemme. La città rimase in gran parte in mani giordane. E così fu fino al 1967. Ben Gurion, mentre ormai tutti davano per spacciato Israele, riuscì a procurarsi armi soprattutto dai Paesi dell'Est: fu una famosa partita di fucili cecoslovacchi che salvò la guerra del '48 e restituì alla vita i circa 500 mila abitanti ebrei di Israele, anche se con tante perdite. I buoni rapporti con il mondo comunista non durarono. L'Urss, con la guerra fredda, si schierò contro Israele, e fomentò e finanziò il terrorismo e le guerre degli anni successivi. Indubitabilmente Israele era uno Stato occidentale infitto nel mondo arabo. Tale è rimasto, e il processo di pace si è potuto schiudere solo con la caduta dell'Urss. Negli anni il totalizzante diritto di primogenitura che gli israeliani sentivano di avere a causa delle tante sofferenze patite dagli ebrei si è affievolito. Dalla guerra del '67 i palestinesi hanno a loro volta trovato una dimensione territoriale da rivendicare nei territori del West Bank, una volta giordani, e poi occupati dagli israeliani. Israele può contare fra i suoi maggiori successi, oltre a quello di essere uno Stato democratico in mezzo a tante dittature, il fatto di aver trovato nella sua coscienza lo spazio per le richieste dei palestinesi. Dagli accordi di Oslo in poi, qualcosa si è mosso anche se la disputa territoriale continua: è indubbio tuttavia che ormai è passato in Israele, ovunque fuorché nella destra ultranazionalista, il principio dell'autodeterminazione dei palestinesi, e comunque il 90% di loro vivono già sotto l'Autonomia di Arafat. Di certo i tanti morti, più di ventimila, durante le guerre d'Israele, hanno insegnato a chinare la testa davanti al fato, alla storia e alla geografia, e anche alla volontà dura come l'acciaio dei palestinesi. E inoltre il vecchio pioniere che viveva di ideali e di spirito di rivincita sulla storia, anche se oggi è a volte assediato dallo spirito religioso che vorrebbe spingerlo da parte, ha ancora molte cose da dire sul futuro di Israele. I pessimisti, e ce ne sono tanti, forse peccano di una visione troppo politica, e non sanno che un Paese formatosi sull'onda alta della storia non può dimenticare mai il bianco fulgore della spuma sotto il sole. Fiamma Nirenstein

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