TRA LA GENTE COSTRETTA AD ABBANDONARE L’ INSEDIAMENTO PIU’ VICINO ALL’ EGITTO Urla, strepiti e minacce a Morag ma alla fine non resta più nessuno
giovedì 18 agosto 2005 La Stampa 0 commenti
inviata a GAZA
La Striscia di Gaza agonizza, ma la sua sorte sembra segnata da una pietosa
accelerazione, dalla consolazione di un pianto dirotto e senza remore,
mentre la temperatura scende di qualche grado e il vento sbatte palme e
bouganvillee. Due terzi degli abitanti sono già usciti per sempre, con o
senza le loro masserizie. È stato il giorno dell'abbraccio di due
sofferenze, quella dei soldati che sradicavano e quella della gente
sradicata, il giorno in cui si è visto che laicità e religione, sinistra e
destra, possono ancora incontrarsi se sanno piangere insieme. È stato Morag
il primo insediamento a essere sgomberato. L'ultimatum scade a mezzanotte,
nessuno dorme. Chi prega, chi impacchetta, chi dice addio, chi discute in
gruppo le ultime disposizioni, chi canta con la chitarra in mano.
Alla mattina presto sulla strada che unisce come un istmo il villaggio di 38
famiglie alla Strisci, a marcia una testuggine di soldati e poliziotti. Da
tutte e due le parti si vedono le case palestinesi di Khan Yunes, a destra
in fondo l’ Egitto. I carri armati israeliani si aggirano fuori dal villaggio
come rinoceronti; non si vedono, ma si sentono i rumori delle loro manovre.
I poliziotti hanno berretti azzurri, niente armi, il casco in mano. Quando
sono in vista scatta il piano di difesa degli abitanti rimasti dopo che
martedì un terzo delle famiglie ha salutato l'insediamento con una cerimonia
da naufraghi. Scattano i ragazzi infiltrati che dormivano nella sinagoga:
corrono ai posti di combattimento, molti salgono sui tetti. In un momento è
pronta una barriera di mattoni coperta di frasche e si leva il fumo
puzzolente dei copertoni. Parentesi tragicomica: un uomo si affaccia e urla
ai ragazzi una frase normale ma che qui suona anacronistica: « Come vi
permettete, questa è casa mia, ci sono dei bambini» . Spesso in questi giorni
gli abitanti si sono trovati in contrasto con l'estremismo giovanile dei
gruppi che dormono nelle tende.
I soldati hanno ricevuto informazioni preoccupanti sulla possibilità che
gruppi di Hamas siano appostati nelle case in vista della strada, bloccata
dai giovani e piena di gente. Devono sbloccare la situazione in fretta e ci
riescono. Le donne gridano: « Soldato disubbidisci, non ti vergogni,
vigliacco, un ebreo non deporta un ebreo» . Sono gli insulti e le invocazioni
che i soldati hanno imparato a sopportare nel corso di esercitazioni
realistiche fino al dramma. Entrano, comincia lo sgombero di un villaggio
che vuole ancora far finta di essere vivo.
La prima grande difficoltà da affrontare, mentre si fanno scendere i giovani
dai tetti e si prende posto sulla piazzetta di fronte alla sinagoga
occupata, è il giardino d'infanzia: in una serie di vaschette verdi piene
d'acqua sguazzano una decina di bambini di due o tre anni, paffuti e nudi.
Un ufficiale minuto e biondo, Shai Gornisky chiede a un grosso settler con
la barba nera: « Che cosa fate?» . « La nostra vita normale, i bambini a
quest'ora stanno all'asilo. È molto caldo no? Fanno il bagno» . Ci vogliono
un’ infinita pazienza e molto tatto perché le maestre si decidano ad
asciugare i bambini, poi le soldatesse li prendono in braccio, li coprono di
complimenti, carezze e caramelle e li caricano sugli autobus con le loro
famiglie. Ma l'uso dei bambini non è cosa da poco, la paura che capiti loro
qualcosa è il peggior incubo dei soldati. A Neve Dekalim ieri un padre
porgeva la sua bambina ai soldati gridando: « Ecco, deportatela, portatela
via» . A Morag un uomo con la barba rossa si staglia nel riquadro di una
finestra, al secondo piano e, orrore, tiene proteso nell'aria un neonato.
Parla ai soldati, ma non si capisce che cosa dice.
Per fortuna non succede nulla. La linea rossa che fino alla tarda serata ha
separato gesti anche duri e pesanti dalla violenza estrema, regge. Un
ragazzo minaccia di buttarsi da una grondaia se la polizia osa venirlo a
prendere ma alla fine afferra la mano tesa dalla finestra e torna a vivere.
Si estraggono semisoffocati due adolescenti che si erano barricati in un
rifugio antimissile.
Poi, mentre il calore aumenta, bisogna sgomberare la sinagoga e le case
ancora abitate. Una scena insopportabile. Non solo perché la gente
asserragliata nel grande edificio che è anche la trincea su cui sono caduti
i missili Kassam in questi anni è fitta, disperata, determinata, ma perché
in un attimo si capisce che tirarli fuori di là significa dare vita al motto
ripetuto dai settler: « Un ebreo non deporta un ebreo» . Sono i diciottenni
che passano tre anni nel servizio di leva - a cui i settler seguitano a
ripetere « Non hai colpa, ti voglio bene, potresti essere mio figlio, ma
pensa a quanti amici ho perduto nel fuoco palestinese per restare in questo
villaggio, anche per te» - a dover trascinare verso gli autobus ragazzi
della loro età con lo scialle da preghiera, che stringono senza staccarne
gli occhi un libro di preghiere, che li supplicano: « Tu sei mio fratello,
lasciami tornare al tempio, non è possibile che io venga strappato proprio
da te dalla mia sinagoga» . Molti compiono il gesto del lutto ebraico, si
strappano la camicia in segno di dolore. Qualcuno bacia sulla soglia del
tempio il rotolo della Bibbia. Dopo è la volta delle ragazze, che vengono
trascinate fuori dalle soldatesse. Restano le case: farsi portare via di
peso per i settler è l'ultimo segno del rifiuto a collaborare con lo stato,
fino a lasciarsi dietro le proprie cose, di non richiedere rimborsi, di
trovarsi da stanotte profughi in un albergo di Beersheba.
Dopo che gli ultimi se ne sono andati, Chaim Gross, il portavoce, ci
sussurra che, nascosti nel buio della città fantasma, ci sono ancora dei
ragazzi. Poco lontano, nella sinagoga di Neve Dekalim, un migliaio di
giovani aspetta lo sgombero; tutto intorno stanchi per il caldo e le
emozioni eccessive, i soldati non vanno a dormire. Non è finita.