SPERANZE ROMANE
martedì 25 luglio 2006 La Stampa 0 commenti
Fiamma Nirenstein
FARE tacere le armi, soccorrere il Libano, costruire uno scenario di pace.
La conferenza di Roma di domani si propone una serie di encomiabili fini. In
realtà , intorno alla risoluzione del conflitto si svolgono una quantità di
danze mediorientali. La guerra, che compie quindici giorni, è cominciata a
sorpresa, come quella del Kippur nel ‘ 73, quando Israele venne attaccata
all’ improvviso dall’ Egitto e dalla Siria. Ne fu felice esito l’ accordo di
Camp David fra Anwar Sadat e Menahem Begin. Il governo del Likud cedette
all’ Egitto il Sinai come pegno di pace. Ma là si è esaurita la forza
dell’ idea « land for peace» , un odio imperituro circonda Israele specie da
quando il rampante movimento islamista lo condanna ogni giorno a morte; e
non ci sono terre che Israele possa dare in cambio dell’ hybris di Nasrallah
e dei suoi mandanti, Ahmadinejad e Assad di Siria, e neanche ai palestinesi
di Hamas, che di Gaza hanno fatto una rampa di lancio di missili Kassam:
tutti vogliono la sua vita.
Arduo terreno per una trattativa, eppure la trattativa ora c’ è . La
conferenza di Roma trova un tracciato sul giornale Asharq al Awqsat, che
propone una piattaforma di Egitto, Arabia Saudita e Giordania basata
sull’ immediato cessate il fuoco e la prospettiva della trasformazione degli
Hezbollah in partito politico, oltre che sul dispiegamento di una forza
internazionale fra Libano e Israele. Gli Stati Uniti intervengono alla
conferenza di Roma proprio per rafforzare il fronte di questi Paesi, anche
se la piattaforma è solo in parte realistica. Israele non lascerà che
Nasrallah, a causa di un cessate il fuoco, esca dal suo rifugio, si tolga la
polvere di dosso e proclami la sua vittoria. Sarebbe la fine per ogni
prospettiva di pace anche con i palestinesi.
Ma la coesione dei tre Paesi moderati, tutti sunniti, salda uno schieramento
che si contrappone a quello guidato dall’ Iran sciita di cui fanno parte gli
Hezbollah, gli alawiti di Assad, e i palestinesi sunniti di Hamas e della
Jihad Islamica. I primi sperano di fermare, nelle more di una tregua,
l’ imperialismo dello schieramento capitanato dal persiano Ahmadinejad. Ma
anche questo schieramento costruisce i suoi vantaggi nel conflitto: la
Siria, nel panico, vuole ritrovare un rapporto con gli Usa, che hanno
ritirato l’ ambasciatrice dal febbraio scorso, con l’ assassinio di Rafik
Hariri. E ieri, Condoleezza a Beirut si è fatta viva, oltre che col Libano
sofferente di Fouad Siniora, anche con lo sciita presidente del Parlamento
Nabil Berri, amico dei siriani. La Siria ha voluto riaffermare ieri che se
non la si consulta, la guerra continua. Damasco potrebbe chiedere agli Usa
di reintegrarla fra i « buoni» per smettere di trasferire agli Hezbollah le
armi iraniane, e consentire, come Israele vorrebbe, il dispiegamento della
eventuale forza internazionale, anche lungo il suo confine con il Libano. Ma
se la Siria riceverà uno sconto sul prezzo diplomatico pagato per Hariri,
potrebbe seguitare a ospitare le organizzazioni terroriste, compresa Hamas,
e in prospettiva ciò non aiuta la pace.
Ahmadinejad ha cercato con questa guerra, e l’ ha ottenuto, che il mondo lo
lasciasse in pace sul nucleare. Per smettere di foraggiare gli Hezbollah con
armi che solo un esercito ultramoderno ha in tale abbondanza, certo
pretenderebbe una pesante mercede: lasciarlo seguitare a costruire la bomba.
Bella prospettiva di pace! Il Libano, che pure ha bisogno del massimo aiuto,
dovrebbe a sua volta farla finita con gli Hezbollah. Se restano, per il
Libano non c’ è futuro. Ogni soluzione, dunque, deve tenere conto che questa
guerra è stata suscitata da un’ ideologia e da armamenti in mano a dei
terroristi. Ogni soluzione che punti ad un nuovo ordine in Medio Oriente
deve rispondere a questa domanda: sto indebolendo lo schieramento
terrorista? Laddove alligna il terrore, non c’ è futuro di pace. La prima
cosa è spazzare via gli Hezbollah, responsabili di questo conflitto: poi
viene tutto il resto. Non dimentichiamolo domani.