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Sicurezza, Bibi deve coinvolgere Yasser La via di mezzo

martedì 20 ottobre 1998 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME LE ultime ore dell'incontro di Wye Plantation non sono più illuminate da quella luce lieve che filtra attraverso i platani sulla moquette, non predomina il tono morbido con cui, come affettuosi parenti, Bill Clinton e Madeleine Albright si piegano sui loro capricciosi nipoti mediorientali. L'arsura desertica è entrata come una folata di vento alla notizia che a Beersheba, uno dei luoghi più sconfortati e meridionali d'Israele, un terrorista ha ferito più di 60 persone. "Com'era fatto? Come un bambino, con la camicia aperta, l'aria agitata", ha raccontato una soldatessa ferita, dall'ospedale. Netanyahu, di certo, ha visto alla televisione nel cuore della notte americana la sua gente straziata alla stazione degli autobus, e subito i coloni e i partiti nazionalisti hanno cominciato a tempestarlo di assordanti richieste perché sospendesse le trattative; Bibi, però , ha deciso di restare. Dopo il pranzo con Clinton sono anche giunte da parte di Arafat e Netanyahu le parole solenni con cui all'indomani di ogni attentato Rabin diceva al mondo "anachnu mamshichim", noi continuiamo. Certo, poche ore prima il primo ministro d'Israele aveva dichiarato che la sua attenzione, adesso, sarebbe stata tutta concentrata sugli aspetti della sicurezza. Ma si trattava di una dichiarazione più che altro roboante, visto che già la discussione verteva quasi solo sul blocco degli insediamenti da parte israeliana, e d'altra parte, invece, sulle garanzie di sicurezza da parte palestinese. Sulla terra, ovvero sul nocciolo della questione, sul passaggio in toto ai palestinesi del 13 per cento, l'accordo è già pronto. Già prima dell'attentato Netanyahu spingeva per ottenere da Arafat rassicurazioni sulla lotta ad Hamas: è questo, infatti, il punto su cui vuole differenziarsi di fronte al suo elettorato dal governo precedente. La sicurezza. Voleva la promessa che gli sarebbero stati estradati i terroristi ricercati da Israele, ma dato il comprensibile diniego di Arafat, l'idea è ormai quella che il capo dell'Autonomia palestinese prometta di processarli a casa sua. Voleva la ragionevole garanzia del cambiamento della Carta palestinese nelle parti che promettono la distruzione d'Israele, ma forse accetterà una soluzione parziale. Può darsi che dopo le bombe di ieri Netanyahu si faccia più determinato su questi punti, ma può anche darsi che Arafat fosse già disponibile a dare segnali di buona volontà . Clinton ha lavorato duro. In assoluto la situazione di queste ultime ore, in cui ciascuno si lamenta dell'altro e Clinton tuttavia allestisce il palcoscenico della cerimonia, ha quel tono di verità che esige risposte. Il terrorismo non finirà in un giorno; Arafat in parte non può e in parte non vuole mettersi contro un modo di essere e di pensare che ha larghe radici fra i palestinesi. D'altra parte, questo è il cuore del problema altrettanto quanto lo era la terra. Non ha torto Netanyahu quando lo indica come un nodo da risolvere. Clinton spinge per arrivare a chiudere l'accordo, Arafat ha ragione a volere la terra, e d'altra parte, invece, la terra promessa d'Israele è la sicurezza. Aveva torto quindi Netanyahu quando minacciava, nel corso di questi mesi, di cessare ogni colloquio se vi fossero stati attentati. È una posizione, e qui lo si vede, irrealistica e insostenibile. Aveva altrettanto torto Rabin a suo tempo quando diceva: "Ci comporteremo con il Trattato di Oslo come se il terrorismo non esistesse, e con il terrorismo come se non esistesse Oslo". Questo deresponsabilizzava troppo Arafat, e anche questo lo si è visto. Il giusto mezzo, ovvero una responsabilità continuamente incentivata, può essere la via giusta. I ricatti non c'entrano. C'entrano la saggezza e il realismo con cui le parti si guardano, e anche la forza del mallevadore. Fiamma Nirenstein

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