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Sharon, il guerriero che promette pace Dai massacri di Sabra e Chat ila alla soglia del potere

martedì 6 febbraio 2001 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME L’ UOMO che quasi sicuramente oggi vincerà le elezioni in Israele e ne diverrà il Primo Ministro, soltanto un mese e mezzo fa, quando Netanyahu tornò dall'America, sembrava aver concluso la sua carriera politica. Il Ministro della Difesa che si dovette dimettere dopo la strage di Sabra e Chatila, il caratteraccio che ha litigato con tutti, da destra a sinistra, il generale che nel ‘ 73 in Egitto attraversò il Canale di Suez contro tutti, un po' eroico e un po' pazzo, l'uomo che alle spalle di Begin, il suo Primo Ministro, nell'82 impantanò l'esercito Israeliano in Libano, fino a Beirut.. Chi avrebbe mai detto che lo aspettava una vita totalmente nuova, e che vita. Tutti i cinquantenni rampanti del suo partito che pochi giorni dopo, alla gran festa di investimento fra palloncini, musica, e grida di « Sharon porterà la pace» (Sharon, Shalom, che fortuna per il vecchio falco questa rima che è stata il centro di tutta la sua campagna) lo assediavano di abbracci e di speranze di prossime investiture e di molto potere prossimo venturo, lo snobbarono alquanto quando era stato eletto, giusto per tappare un buco, segretario del Likud. Un personaggio datato, per niente intonato al nuovo tono yuppie di cui Netanyahu è campione; un guerrafondaio che diceva che non avrebbe mai stretto la mano ad Arafat mentre il processo di pace impazzava, un contadino-soldato molto corpulento, nato in un Moshav e rimasto tutta la vita ad allevare mucche in campagna; un sopravissuto alla commissione Kahan che lo dichiarò ,dopo Sabra e Chatila, non responsabile direttamente, e tuttavia non adatto al compito di Ministro della Difesa. E adesso a 19 giorni dal suo 73esimo compleanno sarà Primo Ministro d'Israele, un po’ sordo, con la gotta e problemi alla prostata, molto rallentato nei movimenti, e tuttavia rapido e preciso nel ragionamento, come hanno testimoniato una quantità di maliziosi accertamenti. Tuttavia, alcuni fra i suoi oppositori sostengono che a Sharon è di fatto indispensabile la continua vicinanza del figlio Omri, capo della sua campagna elettorale, un tipo di grande orso bruno molto somigliante alla madre Lily, una signora di grande classe, scomparsa da poco nella disperazione del marito dopo un lungo matrimonio perfetto, rurale, signorile, nella fattoria con gli animali, le piante, molti ospiti, molti lavoratori anche arabi, con cui sempre è stato vantato l'ottimo rapporto. Sharon, una volta scavalcato senza alzare un sopracciglio l'ostacolo Bibi ha avuto il giuoco piuttosto facile: la strada, più ancora che la confusa campagna elettorale di Barak, gliel'ha spianata Arafat. Il Primo Ministro uscente si è trovato preso fra due fuochi: da una parte la necessità di ribadire incessantemente la bontà della sua strada, quella degli accordi di Oslo e del Processo di Pace. Lo ha fatto con dignità e forza, ma dall'altra parte doveva rassicurare i cittadini, mentre si moltiplicavano gli attacchi mortali sulle strade, gli spari su Ghilò , gli scontri a fuoco con i tanzim, che la loro sicurezza veniva al primo posto. Se Barak muoveva l'esercito, Arafat si infuriava e gli rifiutava ulteriori speranze di pace; se non lo muoveva, la gente si sentiva abbandonata e ingannata. La ricerca di un accordo di pace con un interlocutore che non ha voluto saperne, è stata facile bersaglio per Sharon, che ha giuocato sul sentimento di insicurezza creatosi nella popolazione negli ultimi quattro mesi, e soprattutto non ha avuto difficoltà a mostrare Barak, anche senza tanto infierire (mentre invece il campo avverso lo attaccava con toni apocalittici) come un leader debole all'inseguimento disperato di un partner inesistente e anzi, sbeffeggiante. Arafat, parlando di Israele come di un Paese fascista, dell'esercito israeliano come di una banda di assassini, di Sharon stesso come di un criminale di guerra, e soprattutto seguitando a rifiutare ogni offerta di Barak, fino a Taba, quando ormai era troppo tardi, ha ignorato, volutamente o inavvertitamente le regole di uno Stato democratico: la proposta di Barak seguitava a non funzionare, la gente quindi cambia leader e linea politica. Sharon non ha mai attaccato durante la sua campagna. Anzi, è apparso in mezzo a bambini e fiori, ha cantato in coro la sua canzoncina tutta puntata sulla pace: « Sharon porterà la pace, una pace che ci protegga, Sharon, un leader per la pace» , sforzandosi di guardare dolcemente nella telecamera anche se lo sforzo, con un occhio che guarda altrove, misterioso e distante, gli è davvero impossibile. Mentre la sinistra lo attaccava sostenendo che la sua elezione non può che portare guerra e distruzione, che il Paese sta per cadere in mani estremiste e pericolose, Sharon non rispondeva, non si scopriva, seguitava a promettere sullo sfondo di scenari rosa e celesti la sicurezza e la pace. Come? Non si è mai saputo più di tanto: l'unica elemento concreto è un approccio molto pragmatico, l'idea di basare il negoziato prima di tutto sul cessate il fuoco (« darò la mano ad Arafat solo quando cesserà la violenza» ) di non dividere Gerusalemme, di non cedere più del 40 per cento dei territori e di non ritirarsi dalla vallata del Giordano, bastione di difesa orientale di Israele dall'Iraq e altri Paesi poco simpatizzanti. Dei profughi, non se ne parla. Quanto alla sua linea militare, Sharon non ha mai dato segno di voler tornare ad occupare la zona A, ma invece di voler inseguire, e perseguire, dovunque siano i palestinesi che abbiano attaccato cittadini israeliani: conoscendo la sua storia, non ci sarebbe da stupirsi se ordinasse azioni spettacolari contro personaggi o istituzioni anche importantissime per Arafat, dovunque si trovino. E certo questo creerebbe molte reazioni fra i palestinesi, forse una guerra più aperta. Arafat sembra cominciare ad accorgersene in queste ore. Lo slogan « Barak o Sharon sono la stessa cosa per noi» mostra la corda: Sharon fa paura, e sempre più ne farà ; i leader palestinesi così come i loro media ne danno segno nelle loro dichiarazioni. Il vecchio Ariel, tutto lanciato sulla linea del buonismo, promette per il dopo elezioni un governo di unità nazionale: ma Barak ha già detto che, dal momento che gli interessa la pace e non il potere, lui non riesce a trovare nessuna assonanza fra Shalom e Sharon; e non può dimenticare che è stato lui, con la sua salita al Monte del tempio il 28 ottobre, a accendere il cerino che ha innescato la rivolta. Però , scherzi della sorte, fu proprio Barak, quando voleva Sharon dalla sua parte prima degli scontri, a ricordare che « Il Likud dette il Sinai indietro fino all'ultimo metro e Sharon si occupò in prima persona di smantellare le colonie; a Camp David firmò un documento che si impegnava per una "forte polizia" palestinese; a Wye Plantation, è stato in riunione con Arafat dieci giorni, fino a firmare la restituzione del 13 per cento dei Territori, ricordando che l'uno per cento è grande come Tel Aviv..lui convinse i rabbini personalmente a sostenere l'accordo» . E' la solita vecchia storia: la destra è l'unica che riesce a fare accordi di sinistra col supporto di tutto il popolo. Nessuno può davvero sapere se a Sharon piaccia, nel segreto della sua casa, che la parola Shalom lo baci nella rima: ma di certo non ha potuto ignorarla nella sua campagna elettorale. Per quanto possa essere un caratteraccio, sarà un sorvegliato speciale da parte di un popolo ormai abituato a sperare in un futuro pacifico fin dal 1991, quando tutto il mondo arabo venne all'incontro di Madrid; e del consesso internazionale, che lo guarda serio e preoccupato.

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