RICOMPARE NELLA CRISI MEDIORIENTALE IL VOLTO IMPIETOSO DELLA VIOLENZA CHE NON SI VOLEVA PIU’ VEDERE Allarme rosso in Israele per la vendetta di Yas sin Ma è il presidente Anp, votato a proseguire il conflitto, al centro dell’ a ttenzione
lunedì 8 settembre 2003 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
CONSUETO, ma profondamente diverso, l'allarme rosso in cui vivono in queste
ore i cittadini israeliani, e in particolare quelli di Gerusalemme, la città
più soggetta agli attacchi terroristici. La polizia ha elevato al terzo e al
quarto grado lo stato d'allerta: è il livello consueto dell'Intifada, ma era
calato prima dell'attacco all'autobus numero 2. La musica non è diversa dal
solito, ma i pensieri della gente lo sono. Sono i pensieri di chi vede la
storia togliersi la maschera, e mostrare un volto impietoso che non si
voleva vedere. Quello della guerra che continua e continuerà , dopo che
Arafat ha mandato Abu Mazen fra l'incredulo sconcerto del mondo intero.
Certo fa paura e impressione che lo sceicco Yassin, dopo che l'F-16
israeliano ha sparato il suo missile a lui e a tutto il gruppo operativo
degli attacchi suicidi, abbia promesso di spalancare le porte dell'inferno,
e abbia dato ordine ai suoi di compiere attentati terroristici ovunque
possano. Ma la gente non pensa solo a Yassin e a Hamas, pensa soprattutto ad
Arafat e al cupo evento delle dimissioni del primo ministro.
Tutto promette attentati. Le solite code infinite di auto a causa dei
blocchi stradali e degli oggetti sospetti che la polizia fa esplodere;
all'entrata di ciascuna scuola, di ogni negozio, di ogni ufficio si aprono
le borse, ci si fa frugare, se si deve lasciare un bambino lo si fa molto
malvolentieri. Chi può evita di prendere gli autobus, e chi prende la
macchina evita di affiancarsi a un autobus, se può . Gli avvisi di sicurezza
sono quasi quaranta, come prima dell'hudna, e l'intelligence avverte che gli
attacchi possono essere di ogni tipo: autobomba, suicidi, missili terra-aria
contro gli aerei civili che stanno in tutta fretta piazzando un nuovo
sistema antimissile su ogni apparecchio dell'El Al.
Arafat tuttavia dopo quello che accaduto nei giorni scorsi è il centro di
un'attenzione acuta e incredula: irrilevante per ogni soluzione pacifica, e
rilevante per ogni futuro di guerra e di terrorismo, come lo ha definito il
ministro Tomy Lapid, è come se d'un tratto, giusto con una mossa interna e
non esterna, avesse rivelato un disegno a lungo perseguito, ma mai
certificato come dalla cacciata di Abu Mazen. Il disegno di non perseguire
affatto una soluzione di pace, ma invece una prosecuzione del conflitto fino
alla vittoria finale dei palestinesi. Dopo la sistematica ostruzione del
lavoro di Abu Mazen, specie nel controllo delle forze armate che avrebbero
potuto fermare i terroristi, e successivamente alle sue disperate
dimissioni, Arafat ha cercato, accompagnato dal coro dei politici
palestinesi, come al tempo del suoi rifiuto a Camp David, di gettare addosso
a Israele la colpa dell'evento che porta al fallimento della Road Map: ma
stavolta non funziona.
Il rilascio da parte di Israele di centinaia di prigionieri e il ritiro da
Gaza, Betlemme e Gerico, o l'apertura di svariati posti di blocco anche in
punti delicati, o lo smantellamento di alcuni avamposti degli insediamenti
forse non sono stati abbastanza per suscitare la fiducia palestinese in Abu
Mazen: si sarebbe potuto fare di più , ma non è poco, anche secondo la Road
Map, rispetto al rifiuto di perseguire i terroristi e le loro
organizzazioni. La reciprocità è il terreno su cui i palestinesi hanno
sempre avuto difficoltà a collocarsi, ma la Road Map aveva appunto stabilito
un piano, che la comprendeva, e qui di nuovo Arafat, come al momento di ogni
accordo, di ogni trattato, ha proibito di andare avanti.
Il fatto che Abu Mazen sia stato fatto fuori politicamente (e anche, quasi,
fisicamente da una folla di ammiratori di Arafat) non è solo legato a un
gioco di potere: « Adesso sappiamo senza nessuna possibilità di dubbio - dice
Amos Gilad, il consigliere militare di Sharon - che Arafat è pronto a
giocarsi qualsiasi cosa, la credibilità internazionale, e fin'anche la
possibilità di essere mandato in esilio, sulla scelta di non andare a nessun
accordo. Adesso sappiamo meglio ancora che al tempo di Camp David, dove fu
già molto chiaro che il disegno strategico era quello di non fare alcun
accordo di pace, che ad Arafat, premio Nobel per la Pace, non interessa
altro che continuare un conflitto che egli prevede di vincere con altre armi
menando tuttavia per il naso l'opinione pubblica internazionale con la
favola di due Stati per due popoli, l'ultimo dei suoi desideri» .
Varie volte Arafat ha indicato ai suoi, in arabo, quali sono le sue scelte:
una è quella della lotta armata, che, perdurando, non consente di firmare
alcun accordo. Il terrorismo, sia pure intermittente, ma costantemente in
movimento, consente di evitare i pezzi di carta. Poi viene l'arma della
delegittimanzione di Israele, del sionismo, finché - come è già successo in
settori della politica europea - si accetti l'ipotesi del suo
smantellamento. L'altra arma è quella strategica della demografia, per cui
Arafat chiama le donne palestinesi « una bomba biologica» . La prospettiva dei
due Stati per due popoli, nelle ore in cui Abu Mazen torna a casa cacciato a
furor di popolo e in cui il terrorismo si riaffaccia come prospettiva di
lunga durata, come un fantasma alla luce del giorno, diventa sempre più
evanescente.
Non c'è una virgola scritta o sottoscritta da Arafat che lasci pensare che
una soluzione pacifica gli interessi veramente. La gente che va a prendere
l'autobus a Gerusalemme in queste ore contempla sgomenta questa realtà così
ostentata dalla cacciata del primo minstro della Road Map. E' lo stesso
sentimento che accompagnò il ritorno di Arafat da Camp David, quando, dopo
aver detto il suo inaspettao « no» , alzò il segno della vittoria di fronte
alla sua gente che lo acclamava.