RETROSCENA LE PAROLE DEL VINCITORE La carta del nuovo leader si chiam a moderazione
lunedì 3 giugno 1996 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME NOSTRO SERVIZIO Se quel popolo impazzito di gioia per la
vittoria si aspettava dal suo primo ministro, da
tornato a casa deluso. Netanyahu ha fatto del suo primo discorso
della vittoria, diretto ai suoi elettori, un messaggio alla nazione,
rivolto non tanto e non soltanto ai suoi quanto ai partiti laici e
religiosi che si apprestano a formare con lui la coalizione moderata,
e anche alla parte avversa, all'altra metà del Paese avvilita,
delusa, e anche spaventata dall'avvento della destra al potere. Tre
sono i messaggi basilari: l'unità della nazione, la volontà di
essere il primo ministro di tutta Israele comprese le minoranze
arabe; la continuazione dei colloqui di pace con i palestinesi e con
tutto il mondo arabo; la tradizione sionistica ebraica che però non
deve toccare lo status quo, ovvero gli accordi che consentono ai
religiosi di restare tali senza per questo trasformare lo Stato laico
e democratico in Stato confessionale. Il tutto è stato condito da
altri due importanti punti fermi: l'eguaglianza sociale legata ad
un'economia di libero mercato, e l'affermazione del proprio
straordinario ruolo di leader eletto direttamente dal popolo.
Netanyahu è stato eletto da quella componente che in Israele in modo
più o meno latente si è sempre sentita messa in sott'ordine,
schiacciata dalla leadership ashkenazita laica e tendenzialmente
socialista. Si tratta del mondo sefardita, svantaggiato culturalmente
e socialmente, in parte religioso, in parte superstizioso, in parte
semplicemente pieno di rancore verso il mondo arabo che l'ha espulso
dai Paesi asiatici e maghrebini e verso la classe dirigente di Ben
Gurion che non l'ha mai saputa capire né apprezzare. Fu Begin, nel
'77, a fornire per la prima volta un leader ashkenazita a un mondo
che non aveva mai potuto accedere al potere, e a portarlo al governo.
E Netanyahu si colloca perfettamente sulla sua scia. Il suo messaggio
oggi è : dopo quattro anni di corsa pazza del processo di pace, nella
sicurezza che io intendo offrirvi, potrete finalmente godere i
proventi morali ed economici del processo di pace. Esso finora è
stata la creatura della classe iconoclasta di Rabin e di Peres, che
non sa capire il vostro attaccamento alle tradizioni, è stata la
pace dei giovani con l'orecchino che non amano il servizio militare
né le tradizioni ebraiche. Adesso però , perché Israele abbia un
futuro ricco e di cui voi facciate parte, il prezzo per lavorare,
sembra dire Netanyahu ai suoi, è la moderazione, è la simpatia
internazionale, e soprattutto quella del partner americano. A Clinton
il primo ministro ha dedicato molte, molte parole di simpatia e di
fedeltà . In sostanza, il prezzo in politica estera, Netanyahu lo
dice ormai chiaramente, è il processo di pace; e in politica interna
la concordia nazionale si basa su una premessa, che i religiosi non
avanzino pretese eccessive. Netanyahu infatti sa che se qualcuno
tenterà di chiudere le strade di sabato, ci saranno le barricate.
Qui è molto importante qualcosa che Netanyahu non ha menzionato: è
importante che non abbia parlato affatto della Grande Israele, né
del diritto divino alla Terra. Al contrario: ha chiamato i
palestinesi e persino la Siria (senza dirne il nome) a continuare le
trattative, e soprattutto ha ripetuto la parola pace più e più
volte. Le uniche concessioni che Bibi sembra fare al suo popolo,
affamato di rivincita dopo gli scoppi degli autobus, è la promessa,
del resto per niente nuova e che era propria anche di Peres, di non
trattare, di non dividere mai Gerusalemme. E sono concessioni,
certamente, per lui davvero un animo poco religioso, tutti i
riferimenti alla volontà divina, i moltissimi ,
l'aiuto di Dio e . Ma in bocca di
Netanyahu, che come Clinton arriva cingendo alla vita la moglie, che
sa piazzare le pause emotive giuste al momento giusto, che sa muovere
le mani come un professionista uscito dall'Actor's Studio, tutti
questi appelli all'Altissimo sembran più quelli di pragmatica per un
presidente americano che non quelli di uno dei tanti rabbini con i
quali Netanyahu da domani comincia le trattative sfibranti per il
nuovo governo. Fiamma Nirenstein