Fiamma Nirenstein Blog

RETROSCENA LA SPINA DELLA PACE L'anno nuovo di Hebron Imminente l'acc ordo per il ritiro

martedì 31 dicembre 1996 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV PER sei mesi l'accordo sul ritiro delle truppe israeliane da Hebron era rimasto sul tavolo di Bibi Netanyahu. Era l'accordo chiave, la patata bollente che Peres non aveva voluto levargli dai tizzoni. Era l'irrisolvibile enigma della sfinge ebraico-palestinese: come salvaguardare la sicurezza di circa 400 coloni con mitra in spalla e in continua preghiera alla tomba di Abramo, Isacco e Giacobbe, circondati da circa 150 mila palestinesi, di cui una buona percentuale simpatizzante di Hamas, e un gruppo consistente di terroristi responsabili degli attentati agli autobus? Un quiz troppo difficile, data anche la natura estremista degli abitanti ebrei di Hebron, da una parte aggressivi, dall'altra spaventatissimi, abituati a riporre la loro stessa esistenza nelle mani di un buon contingente di Tsahal, l'esercito israeliano, ormai defatigato ma sempre all'erta. Perché a Hebron i bambini ebrei girano come fossero a casa loro col permesso dei genitori in pieno mercato arabo. Ma adesso, finalmente è arrivato il momento, se non succede niente nelle prossime ore, e Hebron aspetta e ribolle: forse in tempo per l'anno nuovo Netanyahu e Arafat dovrebbero regalare al mondo la rimessa in moto del processo di pace tramite un accordo che in questi mesi è stato la mina su cui ha rischiato di deflagrare di nuovo tutta l'area, Siria e Egitto compresi. Perché la pace riprende, e perché si era fermata? Netanyahu, al di là delle sue convinzioni personali, rende continuamente conto delle sue azioni a un governo di cui fanno parte oltre al Likud, il suo partito, partiti religiosi e religioso-nazionalisti che non apprezzano affatto l'idea di abbandonare la città dove David fu re per quarant'anni. Oltre a ciò , Netanyahu, per educazione, famiglia, ideologia, è un laico, sì , ma molto legato all'idea della terra d'Israele come terra dei Padri; insomma, è un vero conservatore e pensa che Peres, con la sua firma per Hebron, avesse di fatto coperto un accordo più grave, che in segreto prevedeva lo sgombero degli ebrei da quella città santa. In questi mesi, Netanyahu ha anche seguitato a sospettare Peres di aver suggerito ad Arafat di non accettare le varie proposte di parte israeliana, ovvero di non accettare che il nuovo premier pretendesse di fronte all'opinione pubblica di aver imposto un nuovo accordo, tutto suo. S'è detto anche che Arafat sia stato molto consigliato ed anche sostenuto a spada tratta da Mubarak d'Egitto che in questi mesi ha condotto la campagna più dura contro Netanyahu fino a una settimana fa, quando si è mostrato come pacifico mallevadore del nuovo accordo (un uso molto mediorientale, quello di patrocinare gli accordi dopo aver fomentato gli scontri). E tuttavia il vero protagonista della trattativa resta Arafat stesso, un leader che, si direbbe a Napoli, ha saputo levarsi gli schiaffi dalla faccia con uno stile da grande statista. Le vignette sui giornali israeliani mostrano adesso Netanyahu che gli corre dietro supplicandolo di prendersi Hebron mentre lui rifiuta sdegnoso. Da quando Netanyahu dichiarò di non volerlo incontrare, fino all'esplosione dell'ira popolare dopo l'apertura della galleria vicino al Monte del Tempio, il raiss palestinese ha saputo volgere tutti i giochi a suo vantaggio. Ha unificato di nuovo, come ai tempi dell'Intifada, l'intero mondo arabo dietro alla causa palestinese; ha tolto a Israele la simpatia internazionale e gli ha creato intorno il vecchio clima da dura risoluzione dell'Onu; ha risvegliato l'orgoglio europeo chiamandolo finalmente a giocare un ruolo in Medio Oriente; ha giocato persino sull'opinione pubblica americana. E gli Usa hanno dato la zampata del leone. Clinton sa che, se Netanyahu si ritira dal processo di pace, gli distrugge tutta la politica mediorientale di contenimento dell'Iran e dell'Iraq. E quest'anno non gli era andata tanto bene con il fallimento della levata di scudi anti-Saddam in Kurdistan, le attività antiamericane terroristiche in Arabia Saudita, la nascita di un governo islamico in Turchia. Così Clinton ha mandato a dire a Bibi che Israele non può intessere un dialogo strategico con gli Usa e nello stesso tempo non vedersi come una parte di un grande gioco. Netanyahu ha capito presto che gli investimenti stranieri, lo stock-exchange, e quindi l'umore generale del Paese, erano in rapido declino anche a causa di questa subitanea antipatia americana. L'accordo che si sta firmando in queste ore è appena un po' diverso da quello di Peres, e la sicurezza non è affidata certo a quella che Netanyahu sembra credere una grande acquisizione, ovvero il fatto che la polizia palestinese sia temporaneamente armata solo con armi leggere; né è una grande novità la permanenza di ronde miste dentro la zona ebraica. È solo la costruzione di un clima di reciproca fiducia che può salvare Hebron e quindi tutta la zona da uno scontro terribile, e questo è stato lo sforzo degli incontri dei giorni passati: ricreare la fiducia parlando del futuro. Arafat vuole la liberazione dei prigionieri politici, vuole finalmente un aeroporto palestinese, vuole buone misure economiche, vuole che si ricominci a parlare di uno Stato palestinese senza lanciare anatemi. Netanyahu, vuole che invece di procedere secondo i vari stadi che prevedono ulteriori ritiri dell'esercito nelle zone di campagna del West Bank mentre le richieste politiche palestinesi crescono, si cominci subito a discutere dell'assetto definitivo, compreso lo Stato palestinese, compresa Gerusalemme, e naturalmente vuole garanzie di controllo del terrorismo islamico da parte di Arafat. È così che in queste ore escono dall'ufficio del primo ministro molte dichiarazioni inaspettate su tutti questi aspetti del futuro: Stato palestinese, anche se senza esercito; misure economiche, certamente; e per Gerusalemme forse le tre religioni potrebbero convivere in forma organizzata senza per questo toccare la sovranità di Israele. E per ora, non si parla più di nuovi quartieri ebraici nella Città Santa. Oltre alla tremenda pressione internazionale c'è voluta una vera guerra della stampa e della satira politica televisiva israeliana, che hanno fatto Netanyahu a pezzi. Ma alla fine, Bibi è arrivato a capire che in Israele ci sono dei fanatici (fra l'altro ormai sono ricorrenti le minacce alla sua vita) e che è tempo di separarsi da loro, di lasciarli al loro destino. Se Netanyahu riesce a lasciare Hebron nei prossimi giorni sarà la prima volta che la destra e la sinistra si avvicineranno su una questione mai risolta prima: dove sono i confini dello Stato di Israele? Come si vede anche dal mancato voto di sfiducia del Parlamento ieri, ci sono buone possibilità che questo accada. I falchi come Ariel Sharon non hanno potuto fare altro che uscire dall'aula. Che possono fare, altrimenti? Auspicare un governo di coalizione con Peres? Fiamma Nirenstein

 Lascia il tuo commento

Per offrirti un servizio migliore fiammanirenstein.com utilizza cookies. Continuando la navigazione nel sito autorizzi l'uso dei cookies.