RETROSCENA LA REGIA DELLA PAURA L'infinita vendetta dell'ingegner Bom ba
martedì 25 luglio 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV AFULA, Hedera, Beit Lid, Tel Aviv e adesso Ramat Gan. In
mezzo, tre mesi di calma. Calma relativa, con alcuni omicidi come
l'ultimo, quello dei due giovani che camminavano nella vallata
deserta di Wadi Kelt. Ma questo estremismo che dà la sua unghiata un
po' per caso, Israele sa inghiottirlo con le lacrime. Difficile
invece per l'opinione pubblica è stato ieri, non domandarsi se non
si stia sbagliando tutto; se non sarebbe meglio, invece di andare
fino in fondo con le trattative di pace, restare a occhi spalancati e
armi puntate di fronte ad attacchi tanto audacemente portati al cuore
dello Stato, come si diceva da noi, e con tanto puntiglio simbolico.
Ramat Gan come gli altri luoghi dei grandi attentati anti processo di
pace, non ha nulla a che fare con i Territori Occupati né con Gaza:
è nel cuore dell'Israele più ebraica che esista. Solo Hamas, solo
l'Iran, solo i nemici totali dello Stato d'Israele ritengono che gli
ebrei vi si trovino per motivi illegittimi; compiere attentati contro
la popolazione inerme, il più possibile indistinta quanto lo può
essere la gente che la mattina presto prende l'autobus numero 20,
significa dichiarare l'impossibilità di qualsiasi trattativa, di
qualsiasi accordo di pace. Significa lanciare un messaggio di odio
puro, teologico ed etnico, agli ebrei; e ad Arafat, all'Autonomia
Palestinese una sfida carica di disprezzo. Nessun grande attentato si
è svolto a Gerusalemme. Piuttosto, ecco Tel Aviv e l'autobus numero
5 che percorre il centro laico e mondano, Rehov Dizengoff; e poi Beit
Lid, alla fermata dell'autobus, in mezzo a un incrocio spalancato e
indifeso, con i diciottenni in divisa che aspettano l'autobus per
andare a casa all'inizio della vacanza del venerdì pomeriggio; e
ora, Ramad Gan, in kikar ha Tzionut, la piazza del Sionismo, di
fronte alla Borsa dei diamanti, un grattacielo elegante e slanciato
che sfolgora come le merci che tratta. Se il famoso Ingegnere, che si
diverte a fabbricare congegni che uccidono decine di persone inermi
(o chiunque egli sia, visto che dispone di tanto materiale suicida a
buon mercato, non è certo un genio) pone attenzione ai simboli, oggi
crederà di aver sfondato chissà quale simulacro di potenza ebraica
mondiale. Poco importa se sono morti pensionati, bambini, massaie. Lo
stereotipo antisemita della lobby capitalistica mondiale, qui si
congiunge felicemente all'odio antisraeliano. Rabin ha molto
insistito nel dire che Arafat non aveva siglato alcun patto di pace
con Hamas; che non in virtù di un accordo, ma del lavoro delle due
polizie, israeliana e palestinese, per tre mesi si era goduto di un
po' di calma. Questo, per non incrinare ulteriormente la credibilità
del suo interlocutore di pace. Invece, quasi tutti gli esperti di
cose arabe ritengono che il capo dell'Olp nei mesi passati abbia se
non siglato, almeno sussurrato nell'orecchio di Hamas (che non è
solo un movimento terroristico, ma un grande movimento politico e
religioso), molte garanzie per il futuro in cambio di una tregua.
Dopotutto anche Hamas ha interesse a esercitare la sua forza politica
nella futura Autonomia Palestinese che includerà tutto il West Bank.
Arafat può aver promesso ad Hamas un libero gioco elettorale, eppoi,
comunque, una compartecipazione al nuovo assetto di potere. Dunque
quest'attentato si configura oltre che come un atto di incoercibile
odio contro Israele, anche un tradimento (previsto da Hamas fin dal
momento dell'accordo segreto?) contro Arafat. Ed egli, il capo, nel
condannare l'attentato pure ha subito accusato l'Iran di fomentare la
guerriglia anti-processo di pace, riservandosi dunque eventualmente,
di fare in privato i conti con i suoi interlocutori ribelli. Arafat
non attaccherà mai in pubblico Hamas. Ne è troppo minacciato
all'interno. Finché non lo farà troverà seguito il presidente Ezel
Weizman, questo presidente della Repubblica che ricorda tanto Pertini
(più che Cossiga) per la sua vena popolare e populistica: oggi
Weizman mette in guardia dalla prosecuzione dei
colloqui in corso. Il punto rimane sempre drammaticamente quello
della sicurezza: Israele si può fidare di Arafat per contenere
l'odio che ancora suscita nell'area? Probabilmente la risposta è che
ormai Arafat è del tutto affidabile (e non è poco) per quanto
riguarda se stesso, la sua polizia, l'Autonomia Palestinese, e le
azioni non radicali che la sua polizia può compiere contro Hamas.
Per il resto, né oggi né in futuro, gli si può chiedere più di
tanto. È forse la prima volta, nonostante tanti attentati
terroristici che punteggiano l'intera storia d'Israele, che se ne
misura l'ineluttabilità , la persistenza storica al di là degli
sforzi di pace. Non suonano più così potenti le proteste
dell'opposizione rinnovate ieri da Benjamin Netanyau perché lo Stato
faccia uno sforzo maggiore contro il terrorismo e rompa le trattative
di pace: e ai tempi dell'attentato delle Olimpiadi di Monaco era
meglio? E quando Al Fatah era un'organizzazione terroristica?
dovrebbe fare, ha chiesto un giornalista alla figlia di un uomo
ucciso sull'autobus n. 5 a Tel Aviv.
quelli che salgono sull'autobus? E se quello si fa saltare per aria
nello stesso momento in cui ti mostra la carta d'identità ?.
Paradossalmente l'invincibilità , almeno nel medio termine, del
terrorismo, non gioca contro il processo di pace. La sicurezza
comincia a porsi come un problema che non sarà interamente
affrontato adesso, nei colloqui che sono cominciati di nuovo ieri
sulla riva del Mar Morto. Là si potrà discutere della spartizione
delle acque, di come far svolgere le elezioni, di come le due forze
di polizia, fra molti equivoci e fin de non recevoire possano
collaborare, sino a che punto e contro chi. Ma la sicurezza degli
israeliani è affidata a un disegno di lunghissimo respiro, in attesa
del cui compimento vale l'atteggiamento del guidatore dell'autobus n.
20, uscito miracolosamente illeso dall'attentato di ieri. Cosa farà
oggi, gli è stato chiesto, finita quest'intervista, dopo tutto il
sangue che ha visto scorrere? Tornerò subito a guidare l'autobus, a
guidare immediatamente il numero venti. Un gesto di eroismo? Di
dedizione allo Stato? Una dimostrazione d'indomito coraggio?
, ha detto con volto modesto ma deciso il guidatore.
ladri, e non solo eroi e sognatori socialisti, ne avessero fatto
parte. Ma per gli ebrei, in particolare per gli israeliani, è molto
difficile affrontare l'idea che il Male possa allignare anche fra di
loro. Così la terribile storia di Leon Bor, forse un serial-killer,
e comunque un israeliano di origine russa che ha ammazzato due dei
prigionieri che aveva rapito insieme a un autobus carico di turisti a
Colonia, campeggia, turbata e stravolta, sulle prime pagine dei
giornali ed è oggetto di dibattito alla radio, nelle case. Subito
accanto a quella faccia di emigrante russo spaventato, spigoloso, con
gli occhi sbarrati c'è la foto che Bor (al secolo Borschewskij) ha
costretto uno dei turisti rapiti a prendere: se non si sapesse che
proprio in quel momento, con la sua Smith and Wesson aveva fatto
fuori l'autista sparandogli un colpo alla nuca a sangue freddo,
sarebbe una foto comica, la copia povera di un film dell'orrore
americano, con il passamontagna, la calzamaglia nera, tutto
l'armamentario di ordinanza del caso. persino il
raffinato quotidiano Haaretz ha titolato, come se la follia e il
sadismo fossero stati interdetti da quell'ondata di mezzo milione di
immigranti che portò Bor dalla Russia secondo la Legge del Ritorno,
una legge che dà ad ogni ebreo, per matto o delinquente che sia, il
diritto di diventare un cittadino dello Stato d'Israele solo che lo
decida. Così fece Bor nel 1989, e si imbattè in tutti i problemi
legati alla nostalgia e allo straniamento sociale, e forse anche alla
miseria, che rendono triste un uomo normale, e pazzo omicida uno come
lui. Nel '91 Bor, è vero, se ne andò in America; ma nell'89 quando
Israele lo fece suo cittadino era un poveretto arrivato all'aeroporto
di Tel Aviv in un mare di ansia e di sventolare di bandierine
israeliane che accoglievano i russi. Chi avrebbe potuto immaginare
che quell'emaciato personaggio fosse per natura un killer? Invece
ancora una volta, e piuttosto impropriamente in questo caso, gli
israeliani si domandano se non ci sia un inutile e sorpassato
sentimentalismo nella Legge del Ritorno; se non andrebbe forse fatto
all'ingresso di Israele uno screening che dovrebbe evitare di fare
del loro Paese una specie di centro di raccolta dei rifiuti
dell'ebraismo mondiale. È vero che Bor ha sussurrato l'espressione
durante il suo raid assassino? Anche se non è vero
Israele lo ripete: ha l'ossessione, ormai, di quella valanga di
denaro sporco che negli ultimi anni, usando le valigie e la miseria
degli immigrati, si rovescia sul mercato e sulle banche locali; e di
tutti quei delinquenti russi che vengono a insanguinare Israele.
Oltre dunque alla rimessa in discussione del sionismo e al senso di
colpa che accompagna ogni storia di immigrante in questo Paese fatto
quasi solo di immigranti, un'altra grande ferita si riapre sulla
faccia stralunata di Bor, che a sua volta è stato fatto fuori dalle
pallottole dei corpi speciali tedeschi: come mai quando Bor ha
chiesto a una donna di 64 anni fra gli altri passeggeri di dov'era, e
quella ha risposto , Bor gli ha sparato un caricatore
in faccia? Non sarà che tutto il balletto di suprema cortesia
ebraico- tedesca; gli investimenti della Germania in Israele, secondi
solo a quelli americani; le visite diplomatiche così frequenti,
così contrite, così impegnative e di alto livello (come quella di
Kohl di due mesi fa) nascondono un muschio verde di bile e rosso di
sangue, una corrente limacciosa che scorre in un subconscio che ha
perso, in un tempo troppo breve, il diritto di mostrarsi per com'è ,
ancora offeso e dolorante? Quell'orribile passo di Bor è un fantasma
che si aggiunge alla lunga teoria di inquietudini simboliche che
punteggiano questi due anni di processo di pace. E in lui doveva
esserci una cupa volontà di svegliarle tutte se ha persino ripetuto
mentre compiva i suoi crimini. Fiamma Nirenstein