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RETROSCENA LA GUERRA COL LIKUD L'Intifada atto secondo stretta nel pu gno del Rais

venerdì 30 agosto 1996 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV ARAFAT è un politico sopraffino. Da anni, con alterne vicende, è certo uno dei più brillanti del Medio Oriente: sa quel che vuole e riesce a ottenerlo anche quando la sua stella sembra appannata. Ieri, con lo sciopero generale dichiarato in tutta l'Autonomia Palestinese e a Gerusalemme Est, ha gestito, riuscendo tuttavia a darle voce piena, una rabbia profonda nata in questi tre mesi di governo Netanyahu per la chiusura dei Territori, per il nuovo atteggiamento di chiusura israeliano dopo tre anni di pirotecniche aperture. Una rabbia profonda nata anche dalla delusione, dall'umiliazione. Una situazione che Ziad Abu Ziad, un famoso deputato e intellettuale palestinese di Gerusalemme, ha dichiarato . Per giocare con la rabbia palestinese, puoi essere solamente Arafat, nonostante tutte le critiche che gli vengono dal suo stesso mondo, con tutto l'odio che gli porta Hamas, con tutto il malcontento dei democratici palestinesi e l'invidia degli altri leader arabi; e tuttavia è solo il suo carisma che consente di chiudere tutti i negozi, rendendo Gaza ancora più spoglia e disperata, di bloccare la via Salahdin, la più popolata della parte Est di Gerusalemme, di fronte alla Porta di Damasco, abbassando di colpo il volume dei suoni del mercato, dei commercianti di pane col sesamo, di pita, di frutta e ricordini. E tuttavia, mandando a scuola i ragazzini, perché sono i più svelti a lanciare le pietre, e facendo cominciare tutta la messinscena alle otto del mattino cosicché gli operai edili avessero il tempo di uscire da Betlemme e da Ramallah la mattina presto per non far perdere loro la giornata di lavoro in Israele e non lasciare che il costruttore li sostituisse lasciandoli senza pane. Così questo scorcio di Intifada è stato duro, sì , ma ammiccante; esplosivo, ma tenuto in pugno dal rais. Egli infatti ha tutto l'interesse a lasciare a Netanyahu la responsabilità della crisi del processo di pace e a limitarsi a mostrare la sua forza senza lasciare che gli prenda la mano. Anche l'invito (certo molto rischioso) a venire a pregare alla moschea di Al Aqsa oggi è stata resa più morbida dalla richiesta di unirsi ai palestinesi. Una specie di messaggio verso il mondo: scenderemo sul terreno della violenza, inviso a tutti. Forse siamo noi il nuovo Gandhi. Negli ultimi giorni, goccia dopo goccia, il vaso dell'umiliazione di Arafat si era colmato. Il suo atteggiamento, fin dalle elezioni di Netanyahu, era stato possibilista; sull'evacuazione di Hebron il capo dei palestinesi aveva pazientemente assistito all'esercitazioni verbali del nuovo governo, con tutte le nuove soluzioni mai definitive, con tutte le roboanti affermazioni di indispensabilità di Hebron per Israele, fino alla strana decisione del ministero dell'Educazione di mandare le scolaresche in gita proprio a Hebron, uno dei posti più pericolosi del mondo. Arafat, attraverso interviste televisive e la lettera a Weizman per chiedere un incontro, aveva anche cercato di superare pacificamente l'oltraggioso rifiuto di Netanyahu di incontrarlo. Un rifiuto anacronistico, dato che sia in base all'accordo di Oslo che per il precedente riconoscimento dell'Olp di cui Arafat è pur sempre il capo, i palestinesi sono ormai riconosciuti a tutto tondo, anche a livello istituzionale. Infine, Arafat come pegno di buona volontà aveva chiuso tre uffici palestinesi a Gerusalemme per facilitare la strada di un incontro col primo ministro israeliano. Ed ecco che i bulldozer per ordine del Comune gli hanno distrutto un club palestinese (abusivo) politicamente significativo. Ed ecco la ciliegina sulla torta: quando Arafat doveva incontrare Peres a Ramallah, gli era piovuto addosso un inusitato divieto dell'esercito di volare con il suo elicottero rosso. Arafat era ormai furioso quando Netanyahu, accortosi della gaffe, ha chiesto a Tzahal di revocare il divieto. Così , il rais piuttosto che volare secondo il volere di Netanyahu, ha preferito incontrare Peres alla frontiera con Gaza. Per Netanyahu, che forse si era illuso di poter continuare nella sua politica di attesa fino all'elezione del prossimo presidente americano, la minaccia dell'Intifada è proprio una brutta botta. Dopotutto il suo slogan elettorale era: pace nella sicurezza. Adesso, dopo sei mesi in cui grazie alla collaborazione fra i servizi segreti israeliani e quelli palestinesi non c'erano stati più attentati, l'umore è diventato di nuovo rovente, e chissà se un Arafat tanto maltrattato dal governo israeliano sia davvero in grado di seguitare a controllare la situazione. Dunque, cosa si propone Arafat con la chiamata dei palestinesi alla mobilitazione? Egli vuole riguadagnare la fiducia dei suoi e del suo mondo come il leader unico. E vuole anche che Netanyahu si decida, per amore o per forza, a incontrarlo subito bloccando quanto prima la politica di insediamenti che pare preveda 1500 nuove case nei Territori. Vuole probabilmente non tanto arrivare all'Intifada, quanto a una situazione in cui lo stallo del processo di pace venga superato da un gesto unilaterale con una proclamazione dello Stato palestinese, a dispetto dei santi. Se ciò avverrà senza violenza, certo Arafat verrà accusato di violare l'accordo di Oslo, ma la sua risposta sarà che esso era già stato violato in precedenza da Netanyahu, e in tutti i modi. Difficilmente se manterrà i confini dello Stato entro i limiti dell'accordo, il mondo vorrà condannarlo; anzi, potrebbe fornirgli un riconoscimento di fatto con l'apertura di ambasciate a Gaza o a Ramallah. Questo rischia Netanyahu. Sempreché Arafat possa seguitare a controllare la tigre dell'Intifada in agguato, che Hamas pungola quanto più può . Sempreché Netanyahu davvero immobile e perplesso non riesca a compiere finalmente una mossa da vero uomo di Stato. Fiamma Nirenstein

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