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RETROSCENA IL VIAGGIO DELLA DISCORDIA La prossima volta ad Al-Aqsa In Israele la sindrome di Gerusalemme

giovedì 30 giugno 1994 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV A Gaza da qualche ora si puliscono le strade, si ripristinano anche i ritratti murales del condottiero: erano spariti dal tempo della guerra del Golfo, quando gli abitanti soffrirono in termini economici e di prestigio la brutta deb§ acle di Arafat a fianco di Saddam Hussein. C’è sorpresa ed allegria per il prossimo, vicinissimo avvento del grande capo, previsto per venerdì o sabato: falchi e falchetti si accingono a mettere da parte le rivendicazioni e le obiezioni. Non importa tanto, a due giorni dalla venuta di Arafat, se i cinquantenni come Zaharia al Agha o Faisal al Husseini hanno messo da parte i giovani trentenni attivisti dell’Intifada (come Abu Zaideh o Ihab al Ashkar) nel nuovo consiglio di autogoverno o nelle altre istituzioni nuove di zecca. Il fatto che arrivi finalmente il capo è una promessa, un inno nazionale. Anche Hamas potrebbe restarsene tranquilla forse, di fronte all’incarnarsi del volto mitico della liberazione, con la sua kefia dalla piega perfetta. Insomma, si riaprono giornate di esaltazione per i palestinesi, come quando si è vista la prima divisa della polizia, o l’ultima camionetta dell’esercito israeliano è scomparsa in una gialla nuvola mediorientale. Israele è invece straordinariamente sorpresa, ed anche strabica. Sorpresa, perché tutti erano sicuri che Arafat non sarebbe venuto finché una pioggia di dollari non fosse caduta su Gaza e Gerico a garantire un autentico senso di speranza e quindi una buona opinione pubblica anche fra i suoi oppositori; che avrebbe comunque aspettato l’ormai imminente incontro di Parigi, il 6 di luglio con Peres e Rabin; che sarebbe andato diritto nella città di Gerico dalle belle palme, e non nella affaticata, polverosa, misera e riottosa Gaza. Israele è anche strabica: perché da tutto quello che si dice in giro, e alla televisione e alla radio, emerge che gli occhi degli israeliani non sono tanto rivolti a Gaza, quanto a Gerusalemme. Verrà Arafat e avrà i suoi occhi, gli occhi della città santa, della moschea di Al Aqsa, quelli della famigerata Orient House. Arafat, questo è sostanzialmente il pensiero della destra (così si sono già espressi Bibi Netanjau, il leader del Likud, o il deputato Raphael Eitan) non vuole davvero venire a Gaza, e neppure a Gerico. Mira, come ebbe a dichiarare a Johannesburg, alla Jihad per Gerusalemme. Adesso verrà , farà dichiarazioni pubbliche di autoincoronazione a Presidente dello Stato palestinese tout court, dichiarerà lo Stato stesso, chi lo ferma più ? La prossima volta, dicono in molti con preoccupazione, la sua meta sarà Gerusalemme. E anche la sinistra tiene d’occhio la capitale, benché sia davvero contenta che finalmente Arafat se la prenda questa Gaza maledetta, che ha fatto dei giovani israeliani di leva tanti poliziotti, e che è un barile d’odio sempre pronto ad esplodere. Jossi Beilin, il viceministro degli Esteri che ora è famoso in Italia per il suo show down antifascista, ha deglutito la sorpresa dicendo che se Arafat vuole prendersi finalmente le sue responsabilità sui territori autonomi è una gran bella cosa. Ed ha subito aggiunto che a Gerusalemme a pregare potrà certo andarci prima o poi. Lo ha detto anche Peres. Chi può impedire ad un uomo di pregare nei suoi santuari? Intanto Dan Meridor, deputato del Likud, ricordava a tutti però la chiamata alla guerra santa di Arafat, e il sindaco di Gerusalemme Yehud Olmert, di nuovo, quasi disperato, ripeteva che no, che Arafat non deve entrare a Gerusalemme, che sarà un disastro, un pericolo grande, che la città intera prenderà fuoco se Arafat accenderà la miccia gerosolimitana e che questo fuoco si comunicherà a tutti i territori ed anche a tutto il Paese. Ed è certo che il silenzio di Rabin, che per ore ha detto di non aver valutato a fondo e la veridicità e la sicurezza del viaggio e che ha ottenuto lo spostamento di un giorno, è un’espressione genuina e sensata della preoccupazione di un Paese che teme di non farcela a contenere l’eccitazione degli abitanti di Gerico, di Gaza, di Gerusalemme, dei Territori, di parecchi centri arabi- israeliani, e della destra estrema formata dai settler dei Territori. Arafat verrà prima a Gaza, e non a Gerico, perché a sua volta probabilmente si preoccupa che Gerico, meno periferica, quasi attaccata a Gerusalemme nel cuore dei Territori, subitamente anzitempo possa comunicare quell’incendio che neppure lui potrebbe davvero controllare, finché non avrà ben convinto i palestinesi dell’interno, spaccati in mille fazioni ed interessi. Viene a Gaza anche perché in questo modo passerà in un viaggio d’onore attraverso l’Egitto dove Mubarak può dirsi suo amico. Se invece, andando a Gerico, avesse dovuto passare dalla Giordania, avrebbe passato le lande del re Hussein, il sovrano hascemita dal sempiterno contenzioso con i palestinesi. Infine Gaza è grande, ha uno sbocco al mare, prefigura meglio quello spazio statuale cui Arafat ambisce. E i consiglieri di Arafat per la sicurezza gli avevano inoltre caldamente sconsigliato Gerico, dove la polizia ha sì uniformi fiammanti, ma anche moltissimi, troppi problemi. Dunque Arafat, al contrario degli israeliani, lo possiamo immaginare in queste ore in uno stato d’animo guardingo e tuttavia ottimista, pronto a schivare pericoli e ad aprire con la sua visita il flusso dei denari che i donatori americani hanno promesso se il processo di pace andrà avanti. Nelle ultime ore gli americani avevano detto chiaramente: niente Arafat nei Territori, niente dollari. E dopo la visita si sarà anche guadagnato tutto il palcoscenico del prossimo incontro di Parigi. Solo uno dei consigli dei suoi Arafat non l’ha seguito: non andare, gli hanno detto, durante il Mundial. Tutta l’attenzione è sulla palla. Fiamma Nirenstein

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