RETROSCENA I DUELLANTI DEL LIKUD Le piccole risse che uccidono la pac e Vecchi odi, strategie elettorali: una crisi pericolosa
lunedì 5 gennaio 1998 La Stampa 0 commenti
PER sei volte David Levy aveva minacciato le dimissioni in
quest'anno e mezzo di governo Netanyahu. E venerdì scorso tutti i
giornali locali avevano sogghignato: ecco un nuovo "al lupo al
lupo" del pomposo capo dei sefarditi la cui influenza etnica e
cultural-religiosa è molto più grande dei cinque deputati del
Gesher, il suo partito, secessionista dal Likud. E invece, anche se
Bibi fa mostra di grande sicurezza di sé , anche se ha già detto
che pensa di poter recuperare la situazione, pure Levy ci è
finalmente riuscito: ha sempre desiderato tanto, infatti, metterlo
nei guai.
Per due giorni, durante il weekend nella sua villetta fra l'arabo
e il brianzolo a Beit Shean, un paesino del Nord, Levy si è
isolato perfino dalla sua famiglia patriarcale per vedere se alla
fine il lupo era pronto ad azzannare. E almeno per ora ha deciso di
sì . Probabilmente se la stampa non lo avesse preso tanto in giro,
almeno uno degli elementi della sua decisione non sarebbe
lievitato, ovvero, la sua antica, ricambiata rabbiosa antipatia per
Bibi. L'odio è noto da quando Bibi era il vice di Levy, allora
ministro degli Esteri, durante la crisi del Golfo; il capo
escludeva regolarmente il suo vice da ogni contatto politico con
gli Stati Uniti, invidioso dell'ottimo inglese di Bibi.
E l'antipatia raggiunse toni paradossali quando nel '93 Netanyahu
accusò Levy di aver cercato addirittura di ricattarlo con una
cassetta che lo filmava durante un tradimento amoroso; pochi mesi
dopo Bibi battè Levy alle "primarie" del Likud. Da quando
Netanyahu è primo ministro, Levy, ministro degli Esteri in virtù
del suo potere fra gli israeliani di origine marocchina, ha spinto
a forza dentro il governo Ariel Sharon che Netanyahu cercava di
tener fuori a tutti i costi; e poi con notevoli capacità
equilibristiche, si è fatto, di fronte al mondo, l'oppositore più
duro di Netanyahu quanto al processo di pace: ha infatti rifiutato
di accompagnarlo all'ultimo incontro con il segretario di Stato
americano Madaleine Albright, ritenendo troppo deboli le promesse
di procedere al secondo ritiro dalla West Bank.
Adesso Levy gioca su due tavoli, che dovrebbero catturargli sia il
consenso interno, sia quello internazionale: il secondo è appunto
quello di presentarsi come il campione di pace in campo moderato;
il primo, invece, è quello delle dimissioni nel corso della
discussione sul bilancio, con posizioni di battaglia in favore dei
diseredati, per cui chiede un impegno economico molto maggiore.
Tutti e due questi spunti danno a Levy la possibilità , in caso si
vada a elezioni anticipate (e non a un rimpasto, perché è
piuttosto improbabile che 80 deputati su 120 votino per
l'empeachment di Netanyahu, come richiesto dalla legge), di essere
il candidato ideale per un eventuale governo di coalizione. Ma Levy
giura, e con lui il capo del Labor, Yehud Barak, che non c'è stato
il minimo accordo. È chiaro, tuttavia, che andare alle elezioni è
il vero scopo di Levy, anche perché far fuori Netanyahu è un
gesto che può procurargli consensi senza fine, da Clinton agli
uomini del Likud. Ma i cinque voti contrari del partito Gesher non
bastano a far cadere il governo. Netanyahu dispone ancora di 63
voti: ma la destra estrema gli si può facilmente rivoltare contro
solo che Bibi, com'è intenzionato a fare, proceda allo sgombero
dei territori; e se Netanyahu, invece, si sposta a destra, allora
sarà il partito "la terza via" che sostiene gli accordi di Oslo, a
ritirargli i suoi voti.
Insomma, senza Levy il governo resta comunque uno sgabello senza
una gamba. A Bibi resta la possibilità di convincere Levy ad
accettare qualche bel regalo. Oppure di contare sulla schiera dei
deputati della coalizione che non sono sicuri si essere rieletti. E
si può giurare che sta anche già pensando, in ogni caso, a come
gestire la sua immagine nell'eventualità di elezioni nella
primavera prossima: è quasi certo che Bibi pensa a disegnarsi
presentandosi come un campione tradito, che ha osato andare contro
tutto il mondo, contro Clinton, contro la simpatia di mezzo
Israele, e di tutta Europa, contro i suoi amici di partito stessi
per difendere l'idea della "pace nella sicurezza" nella lotta
contro il terrorismo. E che Barak, il capo dell'opposizione, anche
se già annuncia a tutti quanti la prossima vittoria, non è
tuttavia un personaggio forte.
Insomma, Levy ha aperto un capitolo certo molto eccitante, ma
alquanto incerto. Una delle vittime della sua mossa potrebbe essere
persino l'intero fragile tentativo di rimobilitare rapidamente il
processo di pace: da qui a due settimane infatti erano fissati gli
appuntamenti di Clinton sia con Netanyahu che con Arafat. Clinton
era stato a lungo riottoso di fronte alla richiesta della Allbright
di procedere con decisione, e a malapena aveva accettato questo
incontro. Per ora, comunque, Bibi dice di esser pronto a partire
come da programma. Ma solo da stasera sapremo (forse) se i
programmi sono sempre gli stessi, o devono tutti essere riscritti
da capo.
Fiamma Nirenstein
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BIBI, TI ACCUSO
"Nel programma del governo non sono state stanziate somme per
venire incontro ai problemi delle classi più povere, mentre fondi
consistenti sono andati agli insediamenti dei coloni".
"Il processo di pace sta scricchiolando perché nel governo c'è
chi tenta solo di guadagnare tempo e non mettersi in prima fila per
mandare avanti la trattativa".
"L'approccio deve invece essere un altro: ci sono persone che
hanno preso impegni, impegni che non sono stati assunti dal governo
precedente ma da questo in carica. Esse pensano che si possa
guadagnare ancora una settimana, ancora un mese, e non cercano
piuttosto di fare in modo che l'iniziativa nel processo di pace sia
nelle nostre mani".
"Potremmo per questo trovarci, Dio non voglia, nelle veste di
colui a cui sono imposte condizioni".
