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RETROSCENA GAZA 40 CHILOMETRI DANNATI Israele, giorno di liberazione Una Striscia di sabbia, palme e sangue

giovedì 5 maggio 1994 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV APPARIVA involontariamente ironica la grande Sfinge con cui Mubarak ha fatto decorare, al Cairo, il teatro della firma del trattato di pace fra Rabin e Arafat. Un passato e un futuro insieme inquietanti incombono insieme su Gaza e su Gerico: l’odio accumulatosi nel tempo, la violenza di Hamas, la reazione di parte dell’opinione pubblica israeliana, turbata dal mercato che si è svolto sul palcoscenico stesso della pace e sotto gli occhi del mondo ( hanno commentato in tanti in Israele), la polizia palestinese, la densità della popolazione, l’occupazione... Non c’è tema che non sia sotto inchiesta, che non attenda il verdetto della storia. Passata l’euforia della stretta di mano del 13 settembre scorso, il sogno sta ora trasformandosi in esperienza. Ma c’è un punto su cui falchi e colombe esprimono accordo, sia pure espresso in maniera più o meno calorosa: uscire dal buco nero di Gaza. Era un leit-motiv anche dei governi conservatori ripetere che non si sarebbe desiderato di meglio che andarsene da quei 40 km pieni di rifugiati e di disoccupati, abbandonare Hamas sempre in crescita, lasciare i mucchi di spazzatura a cielo aperto, le spiagge con le palme al vento che promettevano paradisi e non erano che inferni, con il più alto tasso di natalità del mondo. E la sinistra, a sua volta, quanto spesso aveva denunciato il peso di crudeltà inflitta alla gioventù israeliana dall’educazione ad essere occupanti cui Gaza sottoponeva Israele. tristi controlli di lasciapassare, ha scritto Yael Dayan, la figlia del condottiero Moshe Dayan, deputata pacifista, Gerico, e noi stessi e i nostri figli... dall’incubo di essere occupanti e occupati, liberiamoci dalle paure e dalle ingiustizie, dai morti e dai prigionieri, dalla loro umiliazione e dalla nostra vergogna. Ma c’è un motivo ulteriore per gli israeliani, che riposa nelle anse della memoria e nei recessi della psiche, per desiderare di liberarsi di Gaza e che probabilmente ha giocato al di là della ben legittima paura che Gaza possa diventare un terreno di organizzazione di attività estremistiche anti- israeliane, di infiltrazioni e scorrerie terroristiche: il fatto è che Gaza, oltre a sollevare i sensi di colpa israeliani, ha anche scalzato per sempre le illusioni di una pace edificata sulla volontà e anche sulla superiorità civile dell’Occidente. Israele ha già tentato una volta di abbandonare Gaza: fu nel 1957. Nel ‘48 la striscia di Gaza che aveva allora 40 mila abitanti contro i circa 800 mila odierni, cadde sotto il dominio egiziano. Non fu un bel periodo: il coprifuoco iniziava la mattina alle 9 e chi lo violava veniva messo a morte; la censura era totale; la mortalità infantile vicina al cento per mille; i cittadini di Gaza non avevano cittadinanza egiziana ed era loro proibito di lavorare in Egitto. La produttività era nulla, l’Unrwa nutriva fisicamente la gente del luogo. Da Gaza (erano i tempi del Rais Nasser) muovevano la maggior parte degli attacchi terroristici a Israele; tanto che Gaza fu uno dei motivi della guerra del ‘56. Gli israeliani allora la occuparono, ma furono poi costretti a lasciarla per volontà del consesso internazionale. Se ne andarono senza troppi rimpianti. Nel ‘67, con la Guerra dei Sei Giorni, di nuovo l’esercito israeliano occupò quei 40 chilometri di terra senza pace. Nel frattempo le condizioni sociali erano ancora peggiorate e il terrorismo era aumentato. E Israele, tuttavia, s’illuse che, con i benefici occidentali oltre che con la forza dell’esercito, avrebbe potuto conquistare la popolazione, l’avrebbe convinta della bontà della sua civiltà , l’avrebbe in qualche modo legata a sé . È così che, comunque lo si voglia giudicare, Israele, fino all’87, anno dell’inizio dell’Intifada, fece di Gaza una società in cui il 97 per cento dei giovani e il 76 per cento delle donne ha la licenza della scuola superiore, la mortalità infantile è caduta nel 1990 al 26 per mille. Sradicando la pertosse, la difterite, il tetano, la cecità da glaucoma, costruendo scuole, università ed ospedali, e zone residenziali che i palestinesi hanno sempre rifiutato preferendo l’aggregazione anche politica dei campi rifugiati, Israele s’illuse, fino all’inizio dell’Intifada, di poter conquistare la popolazione. Ignorava quanto può essere forte l’ideologia, l’umiliazione che dà la presenza di un esercito occupante; ignorava la forza che i palestinesi traevano dal desiderio di veder sparire il nemico, dal desiderio di un loro Stato, e anche, quel che è peggio, non sapeva riconoscere la determinazione vittoriosa dell’Islam. Dall’87 iniziò un progressivo disinvestimento dalla zona di Gaza da parte di Israele: il degrado e la lotta politica l’hanno fatta così da padrone, e in una catena invincibile, l’integralismo islamico ha inanellato l’odio ideologico allo sconforto sociale, mentre l’esercito reagiva duramente, e Gaza si configurava ormai agli occhi degli israeliani come un ginepraio dove solo il machete può sfoltire i rovi. Oggi, abbandonando Gaza, Israele abbandona simbolicamente anche buona parte dell’ideologia trionfante e velleitaria, ma anche ingenuamente illuminista che fu il portato della Guerra dei Sei Giorni. Gli uomini di buona volontà hanno fatto ieri di nuovo del loro meglio; la Sfinge però resta a guardare. Fiamma Nirenstein

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