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RETROSCENA DUE NAZIONI UNA TERRA Addio alla Grande Israele Dai confin i biblici a quelli della storia

lunedì 25 settembre 1995 La Stampa 0 commenti
POCO prima del suono dello Shofar, mentre l'anno vecchio chiudeva bottega e la gente d'Israele si ritirava nel guscio dei due giorni di festa di Rosh ha shana, il Capodanno ebraico, Shimon Peres e Yasser Arafat hanno siglato la seconda parte dell'accordo di Oslo. Da qui comincia l'era in cui, città per città , istituzione per istituzione, potere per potere compreso quello legislativo, i palestinesi inaugurano sperimentalmente la grande avventura verso lo Stato nazionale. Saranno, proprio come si diceva per Israele ai suoi primordi, una Medina ba Derek, uno Stato per la strada. Ma anche Israele è di nuovo, e in maniera molto accentuata, una Medina ba Derek. E cammina stavolta sulla strada fruttuosa e anche un po' triste della realtà dopo la fine del sogno. David Ben Gurion, Moshe Dayan, Golda Meir, benché tutti quanti atei, usavano in gioventù avventurarsi nella terra che ritenevano destinata come patria degli ebrei con una specialissima bussola, quella della Torah, la Bibbia. Il loro poetico girovagare era intessuto delle memorie e delle leggende del re David, di re Salomone, dei Profeti. La loro stessa identificazione personale era quella con gli eroi della Bibbia; e la loro identificazione della Terra che avrebbe dovuto coincidere con Eretz Israel, lo Stato che sarebbe nato nel 1948, coincideva con i confini segnati dai passi dei Patriarchi. L'immenso sforzo di accettazione che Ben Gurion compì e fece compiere ai suoi acquisendo come confini nazionali quelli segnati dall'Onu, di fatto non mise fine al sogno. La guerra del 1967, Guerra dei Sei Giorni, che pose in mani ebraiche la Giudea e la Samaria (che forse adesso, dopo la firma del trattato i palestinesi riprenderanno a chiamare così , col loro nome, e non West Bank) rinfocolò di nuovo la grande fantasia, e rimise in piedi il sogno di una terra d'Israele intera. Ovvero un'Israele che da millenni era stata disegnata solo nel cuore degli ebrei della Diaspora dalla Bibbia. Era l'unica mappa che gli ebrei conoscevano, quella della memoria religiosa che aveva consentito loro di sopravvivere come popolo durante duemila anni di Diaspora. Solo col tempo è diventata la mappa dell'occupazione, dell'oppressione, e della rivolta palestinese. Adesso Shimon Peres e Izhah Rabin, con l'aiuto di quel gran tecnico delle trattative che è il giovane Uri Savir, non a caso vero rappresentante della nuova generazione israeliana, che non conserva niente di diasporico, hanno deposto la verità metafisica dei coloni e anche dei padri per accedere finalmente alla verità storica. Non è possibile dominare un milione e mezzo di persone indefinitamente se si vuole difendere l'assetto demografico e quello democratico; non è possibile portare sulla coscienza e anche sull'economia del Paese e sulle sue relazioni internazionali e sull'educazione della gioventù , la macchia di un'occupazione e della violenza che essa comporta. Questo vuol forse dire che il nemico palestinese non sarà più un nemico? Anche dopo il trattato di pace la strada sarà difficile. Una sezione del mondo arabo che è conquistata dall'integralismo islamico e dall'odio religioso cercheranno di rendere la vita difficile all'accordo. Rabin e Peres sanno che in parte la destra ha ragione, che è possibile che la nuova grande Autonomia Palestinese fornisca rifugio e lasci che si armino al suo interno uomini del terrorismo antiebraico e antioccidentale. E tuttavia anche qui prevale il realismo: la sicurezza secondo il nuovo accordo di Oslo resta in buona parte nelle mani degli israeliani; un'intricatissima rete di strade consentirà all'esercito di proteggere i coloni e anche Hebron, il vero punto dolente, che sarà l'utima delle città palestinesi ad essere cambiata di status. Ma nel frattempo la popolazione palestinese sarà libera, autonoma, gestita da un proprio quasi-Parlamento, e da leggi, tribunali e istituzioni civili proprie. I palestinesi avranno nelle loro mani l'economia, le scuole, la giustizia, l'elettricità , l'acqua. E tuttavia Israele potrà seguitare a proteggere i propri cittadini che non verranno evacuati ma semplicemente si troveranno a vivere una vita alquanto difficile negli spostamenti e soprattutto nel senso di se stessi. Non saranno più i padroni dell'arioso mondo del confine, gli abitanti del Paradiso Terrestre: Peres certamente conta che molti se ne vadano da soli, frustrati. Certamente il futuro che comincia adesso, e già lo si vede dagli scontri di Hebron, è molto difficile e pericoloso. Oltretutto sullo sfondo si intravede sempre il conflitto di Gerusalemme. Inoltre i coloni, per una certa frangia, sono decisi a tutto, a cercare provocazioni che rendano vano l'accordo. E lo stesso avverrà da parte palestinese: molta dell'opposizione di sinistra ad Arafat è arrivata in questi mesi dall'esilio per partecipare in modo non certamente supino né simpatetico con Abu Ammar al processo in corso: anche da parte loro ci si può aspettare di tutto. Arafat avrà il suo filo da torcere. Ma Peres, rispetto ai suoi problemi, ha già lavorato bene: non a caso ha tenuto conto anche della formula del Likud che era anche quella di Menahem Begin: autonomia agli abitanti ma non ai territori. Infatti la sicurezza è molto ben tutelata. Israele depone dunque il sogno, ma ha condotto mirabilmente le trattative soprattutto per la loro parte politica; e presso l'elettorato israeliano, a meno di sorprese, che in Medio Oriente sono sempre dietro l'angolo, la cautela e il rispetto per la sicurezza non mancheranno alla lunga, al momento delle elezioni, di dare i loro frutti. Il realismo e il senso di giustizia alla fine pagheranno. Resta da capire ancora qual è il prezzo antropologico e morale che Israele pagherà a questo immenso cambiamento. Riuscirà a mantenere quel superbo senso di se stessa, della collettività , della modestia del vivere, della cultura, che le ha meritato l'ammirazione e il rispetto anche dei nemici? Oppure il desiderio di pace si trasformerà alla fine in una gran festa consumistica, in una ricerca di benessere dopo tanto patire? Israele rimarrà se stessa anche domani, quando l'ultimo sogno pionieristico sarà definitivamente tramontato? Infine: certo è che Israele è stato a lungo l'avamposto irriconosciuto di un conflitto, quello fra l'Occidente e il mondo islamico, che insanguina Europa e Stati Uniti. Ora con la sua pace segna di nuovo la rotta. È una pace meditata, fatta del riconoscimento dei propri torti, fatta di restituzioni, ma negoziata punto per punto, con gran puntiglio, avendo ben presente il tema della sicurezza. Di nuovo questa scheggia di Occidente segna forse un destino comune per tutti noi: è bene che non rimanga irriconosciuta. Fiamma Nirenstein

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