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RETROSCENA AL TAVOLO DELLA PACE Un litigio lungo 60 ore Il parto dolo roso della Palestina

sabato 23 settembre 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV OGNI dramma pretende una sua adeguata messa in scena. Il Medio Oriente non poteva rappresentare meglio i dolori del parto dello Stato palestinese in via di realizzazione. Giochi d'azzardo al piano terra nel casinò del grande Hilton di Taba dove, invece, al decimo piano, Arafat e Peres giocano la Grande Partita. Sessanta ore di colloqui consecutivi. Hanno gli occhi febbrili dei profeti incaricati dal Cielo di condurre a termine un compito impossibile; hanno tutte le rughe e i segni dei loro 70 anni. Non dormono da cinque giorni. Benché sappiano che firmare è urgente per tutti e due, benché ciascuno lo voglia con tutto sé stesso, non ce l'hanno ancora fatta. E dal momento del loro nuovo incontro, sabato sera, saranno costretti ad una maratona destinata comunque ad interrompersi domenica pomeriggio per la sera di Roshashana, il capodanno ebraico. Il tempo incalza. La posta è enorme. Per Arafat la Palestina. Per Peres, la sua credibilità , il suo onore politico. Firmano, non firmano, stanno per firmare, hanno già firmato, non firmeranno né ora né mai. Da ieri mattina alle 6 le convulsioni hanno rispecchiato in pieno il dramma dei due popoli. Abu Ala e Uri Savir, i due capodelegazioni che a forza di stare insieme sono diventati familiari l'uno all'altro come compagni di scuola, non ridono più fra di loro: Abu Ala all'alba sviene. Il gentiluomo palestinese più raffinato, ottimo esperto di economia, una bella villa nel West Bank, collassa nel doppio ruolo del mediatore cauto e possibilista, e, quello nuovo, di sostenitore dei diritti degli arabi di Hebron. I suoi amici del West Bank. Da vari giorni gli hebroniti palestinesi, col sindaco in testa, stazionano nei corridoi e nelle sale dell'Hilton a ripetere che non c'è trattativa possibile tra 150 mila cittadini palestinesi contro i 400 settler israeliani, e che gli ebrei devono sgomberare. E che Arafat, che non è un uomo del West Bank, non lo sa sino in fondo che la negoziabilità per Hebron è zero. Abu Allah invece lo deve sapere, gli ripete il sindaco di Hebron, poiché è uno di loro. Però Abu Ala sa anche che è vero quello che Mubarak ha detto per telefono ad Arafat nel mezzo della crisi delle carte geografiche avvenuta due giorni or sono: un maiale, è già meglio che niente. Ovvero: prendi tutto quello che puoi, e fanne la base del futuro Stato palestinese. Non perdere la grande occasione che ti offre questo governo israeliano, concludi. Chissà cosa porterà il domani. E così , all'alba, Shimon Peres e Uri Savir accompagnano all'ospedale Abu Ala con la maschera ad ossigeno. Arafat non ce la fa ad andare. Il vecchio guerriero ha la kefia scompigliata, non riesce neppure più a rispondere in inglese ai giornalisti. Sa che a Hebron si prepara un'altra giornata di scontri, di lancio di sassi, di pallottole che volano, di sangue. E ogni tanto gli è difficile ricordare che quella schiera di cartine piene di macchie gialle che rappresentano la presenza dell'esercito israeliano nel periodo dell'interim sono la sua grande acquisizione politica, la nuova Autonomia Palestinese. Dal divano imbottito non serve a ricordarglielo il sorriso sarcastico di Jibril Rajoub, il capo della polizia di Gerico, un uomo che degli israeliani conosce soprattutto le galere, visto che c'è stato per dieci anni. Dicono che da quando è arrivato lui a Taba, l'umore di tutti è peggiorato. Chissà se è vero. Anche a causa della libertà di cui godono a Gerico, impuniti, sul suo territorio, i due assassini del Wadi Kelt, la valle dove sono stati uccisi i due escursionisti israeliani, è salita la temperatura politica di Israele già al calor bianco. Israele bolle: i coloni ripetono che non se ne andranno da casa loro, i rabbini invitano i soldati a disubbidire, la destra si inventa nuove organizzazioni fantasiose e aggressive come la sinistra non è mai riuscita ad essere, neppure ai tempi della guerra del Libano. Sono gruppi, come Zo Artzenu che bloccano il traffico di tutto il Paese, fanno saltare la luce e i telefoni, delegittimano il sistema e il governo con denunce ad personam chiamando minacciosi per nome, come facevano le Brigate rosse, i loro nemici, specie i poliziotti. Peres sa che non si tratta di folclore; è invece la punta di un iceberg. Ormai molti cittadini, intellettuali, uomini d'affari sono esasperati dal rifiuto di Arafat; e gli ebrei americani stanno cercando di bloccare gli aiuti economici del Congresso ai palestinesi, e l'entusiasmo di Clinton per il processo di pace. Il Presidente Weizman chiede intanto di rallentare. Peres ha dunque paura del tempo: ogni giorno succede qualcosa, e ogni minuto può succedere qualcosa di peggio. Arafat ha la stessa paura. E i coloni hanno a loro volta paura di essere cacciati da casa. E la destra, di essere obliterata. E la sinistra, di essere battuta alle prossime elezioni. E i palestinesi di subire ancora una volta l'umiliazione della forza israeliana. Ancora la nuvola di paura non si è sollevata da Taba, ma il vento soffia forte. Fiamma Nirenstein

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