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REPORTAGE UN PAESE FERITO Tel Aviv piange in silenzio Una città che r ifiuta il dolore urlato

venerdì 21 ottobre 1994 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV MENTRE nel buio precoce di Tel Aviv nel pomeriggio di ieri due uomini ancora cercano con la torcia fra i cespugli di piazza Dizengoff se per caso qualche brandello umano sia sfuggito alla raccolta che dura da mercoledì mattina quando l’autobus numero 5 è esploso, tutto intorno la strada centrale, sfolgorante di neon, vive. Nel punto dell’eccidio è stata convocata una manifestazione: alcuni esponenti del Likud, il gruppo del Moledet, lo Tzomet, varie formazioni di destra, con un’imponente pubblicità sul giornale più diffuso di Israele, hanno invitato i cittadini a venire in piazza per chiedere a Rabin di . E infatti così recita l’unico striscione situato nel marciapiede ancora macchiato di sangue, di fronte al bar, alla boutique, al negozio di hamburger e patate fritte con le insegne spaccate dall’esplosione, all’edificio dove ha sede l’Alitalia: tutti rigorosamente aperti e illuminati. . Ma questo appello è quasi tutto: no, Tel Aviv non ne vuol sapere di queste manifestazioni estremistiche cui è invece tanto abituata Gerusalemme, non crede agli slogan ritmati, all’ostentazione della rabbia, dei simboli politici e religiosi, non le piace portare in piazza quel dolore inusitato, imprevisto. La polizia si è rigorosamente collocata lungo il marciapiede dello scoppio, così da consentire al traffico di continuare a fluire; non solo ma perfino di lasciare che il numero 5 potesse fare la sua fermata. Proprio là accanto. Così l’autobus illuminato, quasi un’apparizione fantasmatica, si è fermato e ha spalancato le porte con i passeggeri che sgranavano strani occhi da redivivi (chiunque avrebbe potuto essere al posto di chiunque) su una piccolissima folla, su una sequela di candele accese lungo il marciapiede, su qualche modesto cartello. La gente ha recitato un kaddish, la preghiera che si dice per i morti; un rabbino nero vestito concionava un giornalista americano spiegandogli che pace, 25 mila ragazzi periti nelle nostre guerre. Una donna urlava: paga? È Rabin che li paga?. Un fanciullino dall’aria stranamente dolce spiegava: separazione dagli arabi. Magari accompagnandoli al confine dovunque vogliano andare. In Giordania, in Siria... vadano dove vogliono, ma per conto loro. Tel Aviv incurante soffriva in silenzio, non tenendo in nessun conto i sussulti della protesta. Nel bar vicino al luogo della tragedia un uomo seduto dice: fare è proprio questa, sedersi dov’è scoppiata la bomba e ordinare una birra. Un cameriere guardando i manifestanti si arrabbia e grida: fare tutti gli sforzi possibili per conseguire la pace. Tel Aviv ha snobbato la manifestazione anche perché è stata molto occupata nella gara di solidarietà a cui gli israeliani sono abituati sin dalla guerra del ‘48: è stato un lavoro enorme per gli assistenti sociali rintracciare, avvertire, accompagnare le famiglie dei morti e dei feriti; per i medici raccogliere i pezzi dei cadaveri e ricomporre, per quel che è stato possibile, le salme; per gli psicologi, gli amici delle famiglie delle vittime stringersi al soccorso. Molti cittadini si sono presentati a donare sangue. Migliaia hanno partecipato ai funerali tutti privati secondo l’uso israeliano che tende a non enfatizzare la morte con funerali di Stato. Fra tutti gli strazi due in particolare: un uomo di 74 anni che era sfuggito alla morte nei campi di sterminio, ed ora è stato ucciso sul numero 5. E la ventunenne Ester Sharon. Il marito ha raccontato fra le lacrime: mezzo, vado a lavorare. Lavorava in Dizengoff solo da tre settimane. Ho cominciato a cercarla subito dopo aver saputo dell’esplosione. Non l’ho trovata. Ora sono solo con questa bambina di quattro mesi. Fiamma Nirenstein

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