REPORTAGE NELLA PATRIA DELLE SOLDATESSE Ma Israele pensa al dietrofro nt
mercoledì 14 settembre 1994 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME CORSI e ricorsi: adesso che in Italia l’ingresso delle
donne nell’esercito si fa imminente, Israele, la terra che è
consustanziale all’idea stessa di soldatessa, comincia a chiedersi se
sia poi il caso di continuare sulla strada di sempre. Il processo di
pace, la natalità sempre in crescita, ma soprattutto la cultura
della specializzazione che ha tolto all’esercito la patente di grande
madre dell’educazione, dell’emancipazione sociale, dell’assistenza ai
nuovi immigrati, rende sfuocata l’immagine forte e franca cui siamo
abituati: una giovane donna un po’ spettinata, con la camicia color
kaki infilata alla meglio nei pantaloni sformati, le scarpe alte coi
lacci, il fucile Uzi a tracolla, il volto liscio e stanco da bambina.
Quando David Ben Gurion fondò lo Stato d’Israele non ebbe esitazione
nello statuire che le donne sarebbero state parte integrante della
difesa della neonata nazione. Nel Palmach, l’esercito semiclandestino
delle origini, le eroine di frontiera (camicia aperta sul collo,
canzoni intorno al fuoco la sera, magnifici atti di sacrificio
frequenti come gocce di pioggia) erano state per gli uomini
combattenti sorelle, mogli e compagne alla pari sui campi di
battaglia. Ma Ben Gurion si pose presto il problema del modello del
nuovo esercito: sarebbe stato quello, appunto, del Palmach, con
l’integrazione totale, in cui si dorme sotto la stessa tenda, si
marcia avanti sul campo verso il corpo a corpo col nemico senza
distinzioni di sesso? Oppure piuttosto il modello britannico, ben
presente allora in Palestina subito dopo il mandato, il modello in
cui l’uomo serve la patria e la donna l’uomo? Alla fine, senza dirlo
troppo e con svariati correttivi, Ben Gurion optò per il secondo. Fu
istituito un comando speciale chiamato Hen, guidato da una
generalessa che ha però un potere relativo. Infatti si occupa, per
così dire, del ruolo della donna nell’esercito fin dove non sorgono
problemi legati al campo di battaglia: comanda le ausiliarie che si
occupano di logistica, di educazione, di assistenza, organizza
complicatissimi corsi di trainer nelle tecnologiche belliche più
sofisticate. Per scherzo si dice qui che inquadri le ragazze nei
ranghi di chi serve il tè e il caffè ai comandanti, o che le faccia
accomodare nelle sale ad aria condizionata dove s’impara il computer,
e il funzionamento delle armi più moderne che però le soldatesse
non potranno mai usare. Potranno solo insegnarlo ai maschi.
Nell’esercito micidiale d’Israele che però non supera le 600 mila
persone, le ashkenazite nelle unità più sofisticate, le belle
yemenite decise ad emanciparsi, le russe bionde arrivate da poco, le
etiopi nere nere appena immigrate che già si legano le cascate di
riccioli cadenti sulla divisa con cerchietti fosforescenti, non sono
dunque destinate a unità di combattimento. La loro ferma dura un
anno e due mesi meno di quella dei ragazzi, che si divora ben tre
anni della loro vita. E si parla di ridurre la ferma femminile di un
altro mese. Nessuno osa mai affermare veramente che le fanciulle
siano per qualsiasi ragione meno dotate dei loro colleghi maschi;
piuttosto, dicono i generali, benché sia evidente che la donna può
fare tutto, è tuttavia meglio che il contatto fisico col nemico, sul
campo, in sostanza il rischio di cadere nelle sue mani, sia evitato
ad ogni costo: orribili sevizie, anche e soprattutto di carattere
sessuale, verrebbero infatti riservate alle malcapitate. Da soli
quattro giorni una brunetta di quarantadue anni, russa di nascita,
immigrata in Israele a cinque anni, di nome Israela Oron, è il nuovo
generale dell’Hen: divorziata, con un figlio, ha una laurea e una
specializzazione in psicologia, e proviene dall’unità dei portavoce
dell’esercito, ma la sua esperienza spazia in tutti i campi delle
conoscenze belliche. Le foto la mostrano con un sorriso a labbra
strette, le prime dichiarazioni sono molto determinate: le donne
devono servire come gli uomini nelle unità di combattimento, le loro
capacità come trainer dei corpi più sofisticati, sbattute in fondo
al deserto in mezzo a centinaia di ufficiali che pendono dalle loro
labbra, la loro resistenza, la conoscenza perfetta degli F-15 e degli
F-16 da battaglia che si levano con un urlo nel cielo d’Israele, il
controllo tecnologico dell’informazione telematica e delle nuove
armi, ne fanno un soldato che non invidia niente a nessuno. Quanto
alle violenze sessuali, quello è un guaio inerente alla condizione
femminile in genere, e in particolare a quella di soldatessa in mezzo
ai soldati, quale che sia il suo ruolo e il luogo in cui si trova.
Dentro all’esercito israeliano stesso avvengono moltissimi casi di
stupro; la tensione sessuale fra giovanissimi che convivono giorno e
notte e che spesso appartengono a culture molto distanti, Oriente e
Occidente mescolati insieme, è una miccia sempre accesa. Yehud
Barak, il capo di Stato Maggiore, non perde occasione per parlarne in
pubblico. Da ultimo la tensione sessuale è diventata un problema
così esplicito che gli psicologi dell’esercito si sono domandati se
non si potrebbe utilizzare positivamente il fatto che una bella
giovane abbia alle sue dipendenze, nelle unità in cui si impara a
usare le armi moderne, tanti giovani ufficiali che vogliono fare
bella figura. , mi dice un
giovane amico
correndo più svelta di te.
l’esercito stesse utilizzando il mio sex appeal, che si stesse cioè
compiendo su di me un abuso sessuale dice Enav Neeman, una trainer
che lavora soprattutto nel deserto del Negev con i carri armati,
volte ci può essere qualche battuta, qualche sguardo, ma dopo poco
la tecnica prende il sopravvento. Non è una tecnica da gioco, è una
tecnica per la vita o per la morte. Semmai il mio essere donna
funziona in una chiave materna, consola i ragazzi lontani da casa. Ha
un ruolo pacificante, positivo, non di eccitazione. Il clima che se
ne ricava alla fine è comunque un clima di parità . E tuttavia
questa parità finisce di fronte alla battaglia sul campo: in
Parlamento Yael Dayan, la figlia radicale di Moshé Dayan, ha sempre
trovato il fatto positivo, e non vede perché le donne debbano
uniformarsi a un’ideologia bellica che spesso appare alle femministe
parte integrante del modello maschile. Ma, per esempio, un’altra
deputatessa di sinistra, Nomi Hazan, ha proposto di recente una legge
che apra alle ragazze le unità di combattimento. La causa scatenante
di questa ultima discussione si chiama Alice Miller, abitante ad
Haifa, 22 anni; è andata fino alla Corte Suprema perché le sia
consentito di accedere al corso per pilota dei caccia supersonici da
combattimento. È molto arrabbiata: ha studiato ottimamente
aeronautica al Technion, la scuola specializzata; sa pilotare;
possiede perfetta idoneità fisica. E anche se il presidente Ezser
Weizmann una volta che Alice gli ha chiesto il suo parere se n’è
uscito con uno sconcertante luogo comune patriarcale (
possono pilotare un caccia come gli uomini non possono fare la
calza), la Corte Suprema ha tuttavia accettato la richiesta di Alice
e ha dato all’esercito tre settimane di tempo per risponderle. Una
grande sostenitrice dell’esercito è miss Israele 1992, Ravit Assaf:
svolge un lavoro segreto in Marina dopo aver fatto un corso di
intelligence, e benché la sua carriera di top model sia in uno
stallo notevole, lei considera l’esercito un arricchimento della
personalità e anche un dovere, specie per un personaggio pubblico
come lei che, come dice, deve dare l’esempio. L’esercito israeliano
è a prima vista una commovente immagine di uguaglianza tra i sessi,
fra le classi sociali, fra i più abili e meno abili. È bello vedere
insieme e ovunque tanti ragazzi diversi, di tutti i colori, allegri,
affaticati, sempre scamiciati, sempre in movimento. Ed è incredibile
quanta cura e quanta spesa venga dedicata per non lasciar da parte i
sordi, i paralizzati, i non vedenti, i disabili di ogni genere; e con
quanto amore questa società di immigrazione affidi ancora
all’esercito il compito di combinare il puzzle delle etnie. E
tuttavia nel tempo il fatto di potere o meno calcare il campo di
battaglia, ovvero, in definitiva la possibilità di morire per la
nazione, in un Paese in cui tanto si muore da ragazzi facendo il
soldato e le guerre sono state sino ad ora così frequenti, ha
lanciato un’ombra lunga sulle donne, e sulla società . L’eguaglianza
formale si è trasformata in diseguaglianza più profonda perché la
donna è comunque salvaguardata dalla morte; le difficoltà oggettive
(come per esempio quella a servire fino a cinquant’anni nel Miluin,
il servizio delle riserve) si son fatte frustrazione. Non è detto
che l’esercito in sé e per sé , dunque, al di là delle polemiche
francamente vecchie e che qui appaiono irrilevanti sulla tendenza
naturale della donna alla pace, sia un veicolo di emancipazione. A
meno che la linea di partenza non sia identica, le mansioni le
stesse, pari la gloria: ma questo per le donne non è stato possibile
ieri, non lo è oggi. Fiamma Nirenstein