REPORTAGE NELLA CITTÀ SPARTITA Tra i coloni in lacrime: tradimento
giovedì 16 gennaio 1997 La Stampa 0 commenti
HEBRON NOSTRO SERVIZIO Naji guarda il cielo finalmente plumbeo sopra
Hebron, gira il volto verso l'alto per bagnarsi di pioggia, si tira
su il colletto del giubbotto e sorride come un gatto:
contento. Finalmente piove. Sta ritto proprio sulla linea da cui i
soldati israeliani sorvegliano il mercato arabo che si infila dentro
alla casbah (che non ne saltino fuori dei palestinesi infuriati con i
coloni che vivono là vicino, nel quartiere Avraham Avinu, Abramo
nostro Padre, o che dalle case degli ebrei qualche pazzo non si butti
addosso agli arabi). Da quella linea i soldati, in base all'accordo
firmato ieri notte da Netanyahu e Arafat se ne andranno fra poche
ore, e poliziotti-soldati palestinesi prenderanno il loro posto.
Sulle mura di Hebron e di Kiriat Arba, quartieri ebraici antichi e
nuovi, i muri cominciano a fiorire di scritte: ,
ovvero Netanyahu traditore. È lo stesso aggettivo che le
manifestazioni contro Rabin prediligevano prima dell'assassinio del
padre del processo di pace. Anche un autobus della compagnia Egged,
la linea nazionale, entra a Hebron con questa scritta. È carico di
pie donne con i cappelli e le parrucche, e di religiosi vestiti di
nero che sono venuti a simpatizzare con i coloni di Hebron. Per loro,
infatti, è arrivato il giorno della disperazione. Elitzur è il
padrone di un grosso chiosco a Kiriat Arba. Ma oggi cammina su e giù
per la vecchia Hebron come un animale che cerchi l'odore del proprio
branco e non lo trovi. I riccioli laterali fradici di pioggia, lo
zuccotto fatto a uncinetto tutto storto, ha gli occhi pieni di
lacrime. Anche lui si mette in piedi fra i soldati che andranno via,
sulla loro linea, e si vede che ha paura:
desideri, tutti i miei sogni. Mi sembra di vivere in un incubo. Io ho
votato per Netanyahu, proprio perché aveva promesso di non
restituire Hebron, di non stringere la mano ad Arafat, di considerare
i palestinesi terroristi. Spero di essere cattivo profeta, ma qui
accadrà qualcosa di terribile. Cerco di non vedere, cerco di non
guardare ma se guardo, vedo che ci uccideranno. Il rabbino Levinger,
il leader storico di Hebron, incappucciato, furioso, scuro, in piazza
dalle prime ore della mattina, grida:
più bugiardo e colpevole di quelli precedenti. Il portavoce dei
coloni, David Wilder, un ex professore americano molto tranquillo, ha
il volto grigio ma non si lascia andare. Seguita a scrivere sul suo
computer e a sentire le notizie ogni mezz'ora mentre ci parla:
ancora che Netanyahu e i suoi ministri ci buttino via così . Avevano
promesso di aver cura di noi. E poi, qui nessuno è pronto a
disperare. Avete a che fare con gente di fede. E la fede ci
ispirerà . Qui si prega, c'è sempre una preghiera speciale in corso,
i nostri bambini sono tutti a scuola. Seguitiamo la nostra vita
normale. Non abbiamo preparato nessuna manifestazione speciale,
nessuna speciale operazione contro il governo. Ma due cose sono
sicure: combatteremo fino in fondo, e vivremo qui per sempre. Questa
è la città dei Patriarchi. Ci troviamo né più né meno che a casa
nostra. Nessun governo ci potrà indurre, né con le buone né con le
cattive, a fare le valigie. Lontano dal paesaggio da presepe
stravolto di Hebron, di fronte all'ufficio del Primo ministro a
Gerusalemme, i coloni del West Bank fanno una manifestazione di
protesta. È solo la prima. La Moetzet Yesha, ovvero il consiglio
generale della Giudea e della Samaria, si sta muovendo per
fronteggiare la nuova situazione, e mentre manifesta in piazza fa di
tutto per creare una lobby di ministri intorno alla sua rabbia. Ma il
successo è scarso, il numero dei dissidenti nel governo diminuisce
anziché aumentare. Perché ormai è di questo che si tratta: non
solo di Hebron ma della restituzione di tutto il West Bank. Dopo aver
cercato di imboccare strade diverse, di tenersi buono anche
l'elettorato più recalcitrante, Netanyahu ha preso il processo di
pace nelle sue mani, e questa è la grande novità . Non sarà
identico a quello di Peres e di Rabin, ma nelle linee fondamentali è
lo stesso. Poiché , alla fine è la stessa la pressione
internazionale, la stessa la forza della questione nazionale
palestinese, e la stessa la caduta del blocco guerrafondaio che fu
parte integrante della Guerra fredda. Chi ci riprova con le vecchie
logiche, è come venisse inghiottito da un turbine che sta fra il
tragico e il ridicolo. Quando Netanyahu affermava di non voler
stringere la mano ad Arafat, mentiva a se stesso prima ancora che al
mondo. Quando oggi i siriani esclamano che la pace è solo
un'operazione di make-up e che Israele cova disegni egemonici
nascosti, dicono sciocchezze. Quando Mubarak ha cercato di
riconquistare l'egemonia egiziana facendo la voce grossa, ci ha perso
alquanto rispetto alla figura che ha quando si mostra semplicemente
come il leader del primo Paese arabo che ha scelto, dopo Sadat, la
strada della pace in Medio Oriente. Non solo Netanyahu ha già
incontrato Arafat tre volte, ma l'ha fatto sul terreno del leader
palestinese, sempre a notte fonda, senza i media a lui tanto cari.
Dobbiamo fidarci del racconto di Dennis Ross per credere che
l'atmosfera tra i due mentre stavano per sancire la ripresa della
pace fosse di . Quel che noi vediamo è una grande fatica e
una ineluttabilità che costringe i due a camminare insieme che lo
vogliano o no. Noam Arnon uno dei capi riconosciuti dei settler
afferma pallido e teso:
palestinese, io reagirò come di fronte a un terrorista. Qui si
vedrà ancora molta azione. E Naji, il palestinese:
coloni ad avere paura. Io, fossi in loro me ne andrei di qui.
Ambedue queste affermazioni stanno a significare: se non vi sarà una
separazione a Hebron o in tutto il West Bank grande rimane il
pericolo del terrorismo. Ed infatti è qui il vero grande rischio.
Fiamma Nirenstein