Reportage. Le reazioni in Israele I freddi sul riconoscimento
venerdì 31 dicembre 1993 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME QUALE occasione eccezionale, questa del riconoscimento
della Santa Sede per conoscere da vicino il popolo sabra, ovvero fico
d’India, come si chiamano i nativi di Israele: spinosi di fuori,
dolci nel cuore. Quante spallucce e alzate di sopracciglia verso
questo Afifio, ovvero il Papa che si degna infine, dicono qui, dopo
50 anni, di riconoscere la realtà dello Stato ebraico. Di fronte
alla beata soddisfazione delle alte cariche dello Stato che traspare
nelle dichiarazioni di Shimon Peres, di Yossi Beilin, consapevoli del
valore, ancor più che storico, escatologico del riconoscimento
ottenuto (Peres:
del Papa investe il rapporto fra i cattolici e il popolo ebraico;
Beilin:
grandi religioni), l’aria calda di Israele fa muro. Prima di tutto i
media: la priorità è stata data in questi giorni alla cronaca, ai
colloqui di pace al Cairo, agli attentati terroristici. Poi vengono,
in prima pagina, pezzi di non grande momento, privi di titolazioni
trionfali. Kol Israel, la radio, e anche i due canali della
televisione, non hanno imbastito alcunché di speciale, neppure una
diretta della firma né della conferenza stampa. Un modesto numero di
, il israeliano, ha mostrato due
schieramenti di cui quello contento degli accordi era senza dubbio
minoritario. A favore si udiva la voce del nostro rabbino Toaff
dall’Italia, cui faceva eco dallo studio quella di suo figlio Ariel,
che gli somiglia alquanto ed è professore di storia all’università
di Tel Aviv. L’atteggiamento di molti intellettuali israeliani porta
il segno del dolore, della memoria delle persecuzioni, dello
scetticismo nei confronti della Chiesa. Il vecchio professor
Leibowitz, sapiente e bizzoso uomo di estrema sinistra e religioso,
richiesto se vedesse nella scelta del Papa una svolta di carattere
teologico che tolga infine dalle spalle degli ebrei la colpa del
deicidio e ne faccia un interlocutore alla pari con i cristiani, ha
risposto sorridendo che non ci pensa nemmeno, che quello che lui vede
è solo una mossa politica per quanto importante. E questo è ciò
che qui in genere si pensa: il Vaticano non vuole restare fuori dalle
trattative di pace (ha già infatti chiesto di partecipare alle
discussioni multilaterali), non teme più le reazioni terribili dei
musulmani contro gli arabi cristiani, teme che l’assetto futuro di
Gerusalemme venga stabilito senza il suo apporto, si interroga sullo
stato patrimoniale dei suoi in Terra Santa, molto più fragile ed
esposto di quello, per esempio, dei greci ortodossi; e infine, dice
la gente,
una grande vittoria, e io ne sono lieto. E nell’articolo di fondo lo
stesso giornale ricorda che il Vaticano ha sempre considerato la
diaspora come la punizione ricevuta dagli ebrei per non avere accolto
la rivelazione del Cristo; di conseguenza in un modo o nell’altro
anche se il gesto del Papa è politico, dice il quotidiano, pure la
sua valenza finale è destinata a costituire una svolta: Israele
esiste, ed è lo Stato degli ebrei che lo hanno costruito proprio
nella terra di Canaan. Eppure il fatto che il Papa non si sia
espresso fino in fondo nel condannare le persecuzioni antiebraiche
brucia a molti:
scritto il letterato Amos Kenan - e chiedere perdono per i milioni di
bruciati vivi, di uccisi dai Crociati, gli ebrei spagnoli scacciati e
perseguitati. La Chiesa ha una storia politica di oppressioni e di
persecuzioni. Solo Gesù Cristo di Nazareth in persona e i suoi amici
pescatori del lago Kinneret hanno il diritto di stringere la mano
agli ebrei.
persecuzioni naziste ha aggiunto feroce Tony Lapid, una firma di
peso nel panorama israeliano,
biasimato personalmente questo atteggiamento, né ha chiesto scusa
per lui.
significato storico e teologico del gesto del Vaticano e solo dopo
accettare di stabilire rapporti, commenta amaro il professore di
storia delle religioni Zvi Bervelowskij. Ma questo rumore di fondo,
questa smorfia di sfiducia e di delusione che nasce da due millenni
di persecuzioni di marca cristiana, pure, si intravede, lasciano
posto fra gli ebrei alla meraviglia di chi è costretto a vedere
nell’antico avversario un empito di coraggio: al di là delle
evidenti ragioni politiche, si chiede il mondo ebraico più avanzato,
che davvero questo Papa si sia posto il grande obiettivo di porre
fine per sempre all’antisemitismo endemico alla storia del
cattolicesimo fino ad oggi? Dopo aver fatto cadere il Muro del
comunismo, che abbia scelto di dare una spallata a questa muraglia
più scura e petrosa? Monsignor Michel Sabbah, primate cattolico,
patriota palestinese, ha la parte più difficile in commedia:
sostenere le ragioni del Papa davanti ai suoi compatrioti musulmani,
che accusano ancora una volta i palestinesi cristiani di essere dei
traditori. Ma la posta in gioco è grande, anche l’Olp di Tunisi
appare speranzosa nell’accordo. E comunque non sarebbe più Medio
Oriente, senza questo coro di lacrime, recriminazioni, minacce. E,
finalmente, senza un’aurora di speranza. Fiamma Nirenstein