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REPORTAGE LA NASCITA DI UNA DEMOCRAZIA Tra le urne bianche e rosse la grande festa palestinese

domenica 21 gennaio 1996 La Stampa 0 commenti
RAMALLAH LA storia ha davvero volato alto ieri, sulle elezioni palestinesi, un autentico referendum per la pace, per l'autonomia, in favore dell'accordo di Oslo, e forse anche un autentico desiderio di democrazia. I palestinesi sono partiti a gruppi da casa la mattina per andare a votare. Il marito, la moglie, molte ragazze con la keffyah bianca, il vecchio padre ancora vestito da fellah mentre ormai i giovani vanno in giacca e cravatta, i ragazzi in giubbotto. Certi vecchi hanno le lacrime agli occhi: non avrebbero mai pensato di votare, non hanno mai votato in vita loro, e neppure i loro padri e i padri dei loro padri. Adesso lo fanno un po' a modo loro: scandalizzarsi, sorride Luigi Colajanni, presidente degli osservatori europei, che è contento del grande e pacifico afflusso, mentre il suo collega svedese Karl Lidbom minutamente esamina e misura, seggio per seggio, soprattutto a Gerusalemme, le procedure e trova da ridire su molto, quasi su tutto. I mariti entrano spesso e volentieri con le mogli; i supposti analfabeti, ci conferma sconsolata una vecchia comunista emancipata di Ramallah, sono diventati all'improvviso un numero esorbitante, molto maggiore della realtà : È una farsa che vengano accompagnati da uomini quasi tutti di al-Fatah, e che siano loro a guidargli la mano quando appongono il loro segno sulla scheda. La mattina presto, presso i seggi di Gerusalemme, che sono quelli in cui gli israeliani hanno la responsabilità di strane operazioni di voto che hanno luogo in tre uffici postali, per ogni votante (a Gerusalemme la percentuale, al contrario che a Gaza e nel West Bank, è bassa) ci sono una decina di osservatori internazionali, tutti con la giacca blu e le stelle europee, e una ventina di giornalisti, fotografi, cameramen, affamati di dichiarazioni e di segnali di gioia o di disappunto. Quando poi arriva Feisal Husseini, che Arafat ha spinto fuori dalle liste di al-Fatah, con il volto corrucciato come sempre, l'assalto mediatico diventa assalto all'arma bianca. Anche gli italiani che controllano la regolarità delle operazioni sono miriadi, e si spostano a gruppi, fra cui il presidente Colombo. Ma l'Europa, nonostante si sia data moltissimo da fare, ieri si è vista rubare il palcoscenico da Jimmy Carter. Si aggira un po' affannato ovunque, e denuncia irregolarità che nella storia di queste elezioni, tuttavia, probabilmente rimarranno un assoluto epifenomeno. La grandiosità dell'evento, infatti, non consiste nella regolarità delle operazioni, quanto piuttosto nella processione di famiglie palestinesi che sale a votare lungo le strade di pietra sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme, sulle colline del West Bank, che si avvia fiduciosa verso le urne sulle strade di polvere di Gaza. Che discute, in maniera più o meno corretta, nella Piazza della Mangiatoia a Betlemme, dove ancora non si è tolto l'albero di Natale, ormai divenuto un tutt'uno con gli striscioni a colori dei candidati. I candidati, sorridenti, si fanno vedere in giro, arrivando su Mercedes enormi, di colore rosso, bianco o nero, i vetri affumicati, accompagnati da gruppi di giovani uomini. C'è fanghiglia come sempre, ma anche il sole al campo profughi di Deheshe. Finalmente non solo si entra e si esce; perfino si vota. Gli osservatori locali, compresi quelli incaricati dai singoli candidati, seduti dentro i seggi, mangiano incessantemente senza togliere gli occhi di dosso ai votanti, spostano garbatamente i soliti bambini che entrano ed escono correndo a frotte, protagonisti consueti della scena politica palestinese. I fellah, e i guerrieri che hanno patito nelle carceri israeliane, gli esuli rientrati, le donne, i vecchi, scendono scalini sconnessi verso una specie di centro sociale color calce e cercano il loro nome su una lista scritta in caratteri piccoli e chiari. Si preoccupano: . Poi si trovano, si rinfrancano, prendono le loro due schede. Le cabine sono molto rudimentali, come degli scatoloni tagliati a metà e non consentono nessuna privacy. Ma la privacy non pare una merce molto valutata in un mondo fatto di famiglie che vivono a decine di persone in una sola casa, che si muovono sempre tutte insieme. Anche a Betlemme, niente cabine nella scuola di San Giuseppe dove pure votano i benestanti cristiani, gente elegante, accompagnata da mogli lavoratrici, emancipate. Arriva contenta la ricca famiglia del candidato George Hasboun e sua moglie Rita in pantaloni. E nella grande città di Ramallah, il centro del West Bank, la patria dell'Università di Bir Zeit e dei ricchi emigrati americani che tornano finalmente con i soldi a casa, il luogo natale di leader importanti come Hanan Ashrawi, a parte le proteste dei comunisti, c'è una sostanziale soddisfazione, un'aria di festa. A Gerusalemme, ancora c'è l'occupazione. Ma nel West Bank, ma a Gaza, sono tutti palestinesi. Lo si vede così bene forse per la prima volta. I tre poliziotti di prammatica, di cui uno armato, gli osservatori fra cui tante donne con la keffyah, i vecchi comunisti trascinati dai più giovani a votare per Arafat, tutto è palestinese. Samiha Khalil, l'antagonista diretto di Arafat, che ha molto humour, spingendo giù nelle urne bianche e rosse, anche quelle un po' difettose, la sua scheda, ha detto ridendo vincerò !. In un certo senso, è vero. Questa non è una vera competizione, è più la festa dell'indipendenza, e quindi è la festa di tutti quanti. Domani comincia un altro capitolo, certamente non facile. Fiamma Nirenstein

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