REPORTAGE LA CITTÀ DEI KILLER Nella tana del kamikaze Al mercato si f esteggia la strage
martedì 27 febbraio 1996 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV IN queste ore, in un luogo probabilmente molto simile a
questo, a Dhahiriya, nella periferia di Hebron, una famiglia
palestinese proprio come questa che siede sugli scalini sotto il
sole, da quarantott'ore non sa più nulla di suo figlio. Non sa, ma
immagina. Forse pensa che fra qualche ora la polizia la chiamerà a
identificare qualcosa che fa pensare a quel giovane; un frammento
umano, un oggetto riconoscibile. Dopo qualche ora, a casa,
arriveranno gli uomini barbuti di Hamas, forse armati ma sorridenti;
diranno loro parole di lode e di gloria per il loro esploso
con l'autobus numero 18 a Gerusalemme, spargeranno per la casa e per
il villaggio le sue foto, il Corano in una mano, la pistola
nell'altra, e forse un messaggio di incitamento al popolo
palestinese. Allora la famiglia saprà per certo che quel figlio è
morto facendo una strage di venti civili israeliani, in una immensa
carneficina condotta in nome dell'Islam. Hamas non è solo un mondo
di ideologia e di politica, non soltanto una provetta in cui si
fabbricano attentati. È un universo frastagliato, di convinzioni e
di confusione mentale, di umiliazioni subite e di riscosse
fantasticate, di vite buttate al vento e anche di ambizioni
personali. Hebron, che con i dintorni conta circa 300 mila abitanti,
ne è una delle fabbriche principali. Le indagini dicono per ora che
il terrorista del numero 18 provenga da qui. Forse da una casa di
campagna; dal mercato centrale in cui ci avventuriamo e troviamo
entusiasmo per l'attentato; dalle scuole e dalle organizzazioni
caritative che punteggiano la città ; dagli uffici in cui uomini di
affari barbuti ragionano sul Corano, sull'avvento dello Stato
teologico regolato dall'Islam, e anche sui loro interessi. Di certo,
da questa casa situata nel sobborgo di Dhahiryia due giorni prima
dell'attentato del 21 agosto scorso uscì Sofian Jabarin, uno dei
sette figli di Salem Jabarin, per andarsi a caricare di fanatismo e
di tritolo, e far saltare in aria l'autobus numero 26 di Gerusalemme:
sei morti e cento feriti. Oggi il padre con la galabya nera orlata di
rosso, insieme alla madre scalza, e un gran numero di figli, di
mogli, di nipoti, ci invitano a sedere su un'aia circondata di ulivi
e di miseria. La casa di calce è bassa, semivuota.
nel suo cuore - dice il padre di Jabarin - che ne sappiamo noi dei
perché di questo figlio che ci pareva tranquillo e normale. Un
giorno cominciò a frequentare l'università di Hebron. Ma aveva 26
anni quando è morto, e quindi faceva quel che voleva, e da solo. Noi
non siamo una famiglia religiosa. Lui invece diventò molto attaccato
alle regole. Pregava cinque volte al giorno. Tutto è successo
d'improvviso. Il suo corpo non l'abbiamo mai visto, non è
seppellito. La nostra vita è ormai distrutta, un altro figlio,
Feisal è in carcere. Sofian era cresciuto fra noi, carpentieri,
contadini, lavoratori di campagna e edili che vanno a lavorare a
Beersheba in Israele. Da quando è morto nessuno qui ci ha mai
mancato di rispetto, anzi. Ma noi non siamo più gli stessi. Il
fratello Hadel, 31 anni, dice che
Goldstein, la sua mente si è rovesciata. Ma se io avessi intuito
quello che stava per fare, l'avrei legato con una fune. Io ormai sono
un altro: un tempo ero persino bello, oggi sono uno straccio. A volte
dal nervoso picchio i miei bambini, non ho lavoro, non capisco più
nulla, sono confuso. Tutti noi siamo andati a votare, uomini e donne;
la pace vuol pur dire qualcosa. Ma io bruciai e volai in cenere su
quell'autobus insieme a lui. La famiglia di un di Hamas
se, come in questo caso, non è catturata in un meccanismo
estatico-politico rimane così : imbambolata, paralizzata dallo shock,
i familiari accatastati gli uni sugli altri nella depressione. Tutta
la sua espressività è svuotata. Non sanno nemmeno se sono
dispiaciuti per le vittime dell'attentato di ieri, se hanno rivissuto
la loro personale storia:
giorno. Invece parte della città di Hebron è chiaramente
elettrizzata dalla strage di ieri. Al mercato zeppo di giovani che
comprano giornali, fa affari un ragazzo che vende ritratti
dell'Ingegnere Jehie Ajash, il terrorista assassinato dai servizi
segreti israeliani. Sotto il volto del loro eroe, si vede un martire
biancovestito che abbraccia Gerusalemme. Il giovane vende un ritratto
a una donna: suo marito è stato ucciso nella grotta di Machpelà da
Goldstein due anni fa. Il bambino che la donna tiene per mano è
stato a sua volta ferito. Moschee con gli altoparlanti cantano versi
del Corano, il venditore di ritratti è un'attrazione. I giovani
intorno spiegano che l'attentato è una bella azione; la pace sarà
tale solo quando Gerusalemme, Haifa, Jaffa saranno nelle mani dei
palestinesi. Arafat, Mubarak, re Hussein sono solo dei traditori.
. Ma perché
si sparge il sangue della popolazione civile? Delle donne e dei
bambini? Rispondono che è una vendetta per la morte di Ajash. Se è
così , allora perché non puntano a un alto ufficiale israeliano,
invece che a dei ragazzi inermi? Perché le umiliazioni che devono
essere pagate riguardano l'insieme degli israeliani, tutti soldati,
tutti usurpatori della terra altrui, che seguitano a tenere
prigionieri i patrioti palestinesi. E allora, Arafat non conta nulla?
E la sua pace, che cosa è ? È un episodio senza futuro. Il futuro è
solo la Jihad islamica. È meglio, dice un ragazzo che vende mandorle
fresche prezzemolo e lupini, che gli israeliani tornino a occupare la
West Bank e che finisca questa farsa. A noi, spiega, che vinca Peres
o Netanjahu, non ce ne importa niente. In un moderno ufficio, poco
distante, un leader intellettuale di Hamas, lo Nizar Ramadan
ci mostra con orgoglio la sua nuova rivista . In copertina
ancora la foto di Ajash, e quella di un bambino col fucile in mano.
Ramadan, che ha una tipografia ed è vestito in doppiopetto e
cravatta, è stato espulso in Libano per un anno; ed è tornato nel
1993. Ogni venerdì legge e commenta il Corano nella moschea.
Testimonia che i giovani, di cui si dice che il 70 per cento ad
Hebron siano ormai pro Hamas, sono sempre più numerosi e attenti. Ma
che cosa ha a che fare Ajash col ? Con gli affari che Ramadan
vuol fare? Ramadan risponde che comunque il futuro si chiama Stato
islamico. Quanto all'economia, l'Islam ha un'idea ben definita anche
in questo campo; e il futuro economico senza la morale religiosa, non
gli interessa affatto. Niente affari, niente vita, niente politica
senza Stato islamico. Niente realismo. Niente Arafat. E del resto la
sua famiglia possedeva mille dunam di terra, e Israele glie li deve
indietro. Fiamma Nirenstein