REPORTAGE L'ANGOSCIA VIAGGIA SULLA LINEA 5 In bus, seduti accanto all a paura Volti sbarrati, vie deserte: i giorni del panico
mercoledì 6 marzo 1996 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV LE città sono semivuote in Israele. La paura sta diventando
un problema tecnico oltre che uno stato d'animo. Che cosa fare?
Tenere i bambini chiusi in casa? Non lasciare che la nonna vada al
mercato? Come raggiungere la scuola? E l'ufficio? Andare al
ristorante o non andarci? Parlare o tacere, con i bambini, su quello
che sta accadendo? Piangere, o mostrare il viso di tutti i giorni?
Favorire il desiderio di restare rintanati, o forzarlo, romperlo,
uscire di casa? E come fare i conti con l'immagine di se stessi che
si modifica, che passa dall'israeliano intrepido, imprevedibile,
vincente, a quello di un individuo cacciato fin dentro il cuore di
Tel Aviv, la città più aliena ai simboli delle lotte ideologiche,
la più disincantata e moderna? La prima legge di questi giorni è
evitare gli autobus. Essi infatti si aggirano per le metropoli
semideserti; il numero 5, quello dell'attentato di qualche mese fa
che passa per Rehov Dizengoff di fronte al centro commerciale appena
esploso, all'ora di punta non portava che alcuni eroici passeggeri, e
qualche giornalista. Salire, restare in piedi vicino al guidatore per
due fermate è come percorrere un chilometro in compagnia della
morte. Guardi la faccia della tua vicina, una russa di mezza età con
un'enorme borsa sulle ginocchia, e la vedi già insanguinata o a
brandelli. Guardi un ragazzo che ride, e lo vedi ghiacciato per
sempre in quella risata. Gli autisti, sia a Gerusalemme che a Tel
Aviv, ti raccontano subito che sull'autobus appena scoppiato
avrebbero potuto esserci loro, che solo per caso sono stati destinati
a quell'ora e in quel giorno, su un altro numero. Chi può prende
l'automobile. E in Israele ci sono molti poveri, molti immigrati
recenti, russi o etiopi che la macchina non ce l'hanno. Comunque,
anche chi viaggia in macchina cerca di tenersi molto scostato dagli
autobus. I bambini, e anche i ragazzi grandi, ormai vengono
accompagnati dappertutto. I taxi sono introvabili. Sono tutti presi.
Nessuno commenta la propria paura: i genitori accompagnano i bambini,
si incontrano davanti alle scuole, alle palestre, ai giardini
pubblici, e si guardano negli occhi e tutt'al più , basiti, si
dicono: . Questa sembra la frase preferita in questi
giorni. A Gerusalemme si vede in giro molta polizia, a due a due
anche i soldati pattugliano le fermate degli autobus. Ma
l'escalation, che ormai mette a rischio tutti i luoghi pubblici,
richiederebbe una quantità di personale che tutta l'esperienza di
questi anni non è riuscita tuttavia a fornire. Sulle porte dei
supermercati, dei teatri, dei cinema, dei grandi magazzini, dei
centri commerciali come i Dizengoff Center, che ormai in Israele sono
moltissimi, un guardiano fruga le borse di chi entra con poca
convinzione. Si sa che un uomo bomba deciso a morire non può essere
comunque fermato. La psiche dei bambini è la grande preoccupazione
di queste ore. Centri psicologici funzionano ovunque, al numero 106
risponde un pronto intervento psichiatrico a chiunque chieda aiuto.
Fra quelli che telefonano ci sono moltissimi nuovi immigrati,
sconcertati dalla situazione che hanno trovato nel Paese. La radio e
la tv funzionano da valvole di sfogo della paura, la gente telefona
in continuazione, e moltissime sono le voci infantili che raccontano
la loro esperienza: ero là vicino; una mia compagna di scuola non
tornerà mai più ; ero per mano con la mamma quando lo spostamento
d'aria ci ha trascinate lontane, lei non mi vedeva e chiamava il mio
nome, io la vedevo ma non riuscivo a parlare, a farle sentire che
stavo bene; non riesco più a uscire di casa; sono vecchio, non posso
guidare l'automobile, come muovermi dalla mia abitazione? Gli
psicologi consigliano di
tappeto: anche questa è un'espressione che si sente spesso
ripetere. I ragazzi più grandi si riuniscono nelle case dei compagni
di scuola per parlare dell'accaduto. Le famiglie telefonano loro
continuamente, vogliono sapere dove sono, a che ora torneranno. Una
situazione assai strana in una società libertaria e rispettosa della
libertà dei bambini come Israele. Le famiglie cercano anche di
ripetere tutto quello che lo psicologo consiglia: può capitare, è
vero, ma non è affatto detto che capiterà proprio a noi. E ancora:
Israele è forte, ha tutta la possibilità di battere il nemico, non
è forse vero che ha già vinto tante guerre impossibili nel passato?
In questo clima è diventato difficile ragionare di pace,
riaffermarne la bontà . Tanti genitori pacifisti vorrebbero che i
loro figli non perdessero d'occhio il sogno di Rabin e di Peres, non
odiassero i palestinesi, ma i bambini che sono sempre molto concreti,
chiedono come si fa a sentirsi sicuri di nuovo se non si batte il
nemico, se non si riesce a punirlo. Alcuni adulti combattono con dei
pregiudizi che non hanno mai avvertito dentro di sé :
un arabo su un autobus, io scendo, e me ne vergogno. Non ho mai
sentito differenza tra me e un arabo, ed è la prima volta che faccio
i conti con questo sentimento. I politici e gli intellettuali
seguitano a fare coraggio alla popolazione cercando di restituire a
Israele il senso di identità che la paura gli ha tolto, invitandolo
a ripopolare le città , ad andare avanti nella normalità . Ma lo
shock non è solo quello dovuto al pericolo. È un vero e proprio
shock antropologico. Israele è passato in pochi giorni dal
rassicurare se stesso forte e capace di autodifesa a una situazione
completamente nuova, in cui prevale il senso di confusione inerme.
Ognuno, in fondo, aspetta da parte di Shimon Peres quel colpo di reni
che l'ha salvato anche nelle guerre impossibili. Fiamma Nirenstein