REPORTAGE IL PIANTO DELLA FAMIGLIA Con Lea, nella stanza del dolore L a figlia:
sabato 11 novembre 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV LEA Rabin è seduta nell'angolo sinistro del salotto, in
Rehov Rav Rashi numero 5, 8o piano. Sullo sfondo il paesaggio moderno
dei casamenti di Ramat Aviv vicino all'università . La luce della
grande finestra entra come una cascata di realtà sulla Shivà della
famiglia Rabin. La Shivà sono i 7 giorni in cui la famiglia di chi
muore, siede costantemente in casa; gli amici a qualsiasi ora vengono
in processione, siedono, parlano dello scomparso, donano i loro
ricordi alla moglie, ai figli. Ieri notte in questo ascensore piccolo
e graffiato, dove saliamo dopo aver passato miracolosamente la
selezione dell'ingresso fino all'ultimo piano dell'edificio senza
nessuna pretesa in cui viveva Rabin, è salito anche Arafat. Senza la
kefia, con un berretto che ne velasse la riconoscibilità al
pubblico, ha volato di notte in elicottero, e di notte ha percorso un
breve tragitto in macchina, sempre nel prosieguo di tutti gli eventi
mitici iniziati con la morte di Rabin. Ha visto per la prima volta le
luci notturne della metropoli israeliana, è entrato nella casa del
suo ex nemico. Com'era Arafat, signora Rabin?
commosso. Come si è sentita vedendolo entrare propro in casa sua?
. Ha provato piacere nel vedere
quest'uomo che è anche un grande simbolo, un cumulo di storia anche
di inimicizia entrare nel suo salotto, sedere sul suo divano?
provato una interna profonda sensazione di comunicazione. Vi
conoscete bene?
anni, abbiamo trascorso insieme tanti momenti importanti. Avete
parlato a lungo? È rimasto da noi tanto tempo, forse due ore. Lei
ha detto che talvolta si sente più vicina ad alcuni palestinesi
piuttosto che a certi ebrei..., si avvicina Dalia, la figlia,
identica nei tratti al padre, con una maglietta bianca e nera, il
viso gonfio di dolore. Vuole difendere la madre dagli argomenti
troppo impegnativi: Sì , è vero, sono certa che un ebreo che vuole
la pace e un palestinese che vuole la pace, hanno di più in comune
piuttosto che due individui dello stesso popolo di cui uno è mosso
da sentimenti di odio, dalla volontà di continuare la guerra. Dalia
e il resto della famiglia erano con la madre durante la visita di
Arafat:
ebraico. L'abbiamo trovato estremamente familiare, rilassato,
addolorato nel profondo. Qualcuno ci ha detto che ha molto pianto. Ha
detto che mio padre è stato uno degli uomini migliori del mondo. Io
l'ho incontrato a Washington, a Parigi alla riunione dell'Unesco...
Credevo di conoscerlo bene. Ma ieri sera ho provato un sentimento
molto diverso verso di lui. La sala di casa Rabin è molto elegante,
anche se per niente lussuosa; Lea indossa un maglione bianco e
pantaloni neri. È leggermente truccata, porta alcuni gioielli, un
paio di piccoli orecchini, un braccialetto. Sul sofà a fiori di
fronte a lei siede un gruppetto di vecchie amiche. Ognuna, si direbbe
guardandole, deve avere una storia speciale, certo provengono tutte
dal primo nucleo di autodifesa ebraico, Laganà , da cui viene anche
Lea. Si vede che sono donne emancipate, intelligenti, sicure di sé ,
che devono avere difeso e poi costruito il Paese. Poco più indietro
parlano fitto fitto, si scambiano racconti, gli amici più intimi di
Rabin, seduti intorno al grande tavolo da pranzo che era il santuario
dell'intera famiglia Rabin sempre riunita per la cena del venerdì
sera. Ieri vi si trovava come probabilmente tante altre volte, anche
Chaim Ramon, il giovane politico considerato l'erede naturale di
Rabin, una volta che la naturale successione di Peres venisse messa
in discussione; e c'era Shimon Sheves, il suo più fidato compagno e
segretario. Una scala a sinistra del salone viene continuamente
percorsa dai bambini della famiglia, che si avvicinano alla poltrona
della nonna; e lei li abbraccia, li tocca, gode della loro vitalità ,
li bacia, sorride un poco. , chiede
un'amica.
caffè mi farà malissimo, risponde Lea. La sua forza provoca
un'autentica emanazione di energia, guardandola così da vicino, fra
i molti quadri moderni e geometrici appesi alle pareti, le poche
fotografie, i libri di casa in tutte le lingue, i fiori ammucchiati
in un angolo, si può credere che il monologo iniziato la sera dopo
l'assassinio in cui Lea ha accusato chi denigrava e chi attaccava il
marito, sia un monologo, sì , di passione personale, ma anche di una
passione civile destinata a continuare. È a questo punto che Lea,
che ad uno ad uno riceve gli ospiti con autentica attenzione, e li fa
sedere su un panchetto chiaro e grande per riversarle i ricordi sul
marito, accoglie anche la memoria della cronista su una delle ultime
interviste fatte a Yitzhak Rabin e regala un particolarissimo
ricordo, una sensazione intensa, legata all'Italia. Il primo ministro
non sorrideva mai, così alla fine richiesto del perché , rispose:
. Però , ricordiamo insieme,
alla manifestazione di pace sorrideva, ultimamente il suo mezzo
sorriso era ben più frequente, si concedeva alla gioia del suo nuovo
ruolo di pace. D'un tratto, Lea Rabin, durante la nostra
conversazione, si è alzata dal divano. Le avevo chiesto se ricordava
il pranzo di festeggiamento di Aleph Beth Yeoshua, il grande
scrittore, che aveva appena ricevuto il Premio Israele. Era sabato 29
aprile: eravamo a casa di Niva Lanir. Si ricorda, signora?
ricordo molto bene, abbiamo parlato dell'Italia, e io le ho chiesto
di farmi avere "Il libro della memoria", di Liliana Picciotto
Fargion, il libro che elenca i deportati che dall'Italia sono andati
a morire nei campi di concentramento tedeschi. Fra di loro c'è anche
il nome di mio nonno. Lea Rabin, dunque, si alza, mi prende tutt'e
due le mani. È alta, diritta, commossa. Entriamo nella piccola
biblioteca che sta a lato del salotto. È tutta coperta di scaffali.
I libri sono molto fitti. Ecco .
Le raccontai che la mia famiglia dalla Russia si era spostata a
Milano. Ecco il nome di mio nonno. Mi mostra, e mi legge a voce
alta:
detenuto a Fossoli, trasportato da Fossoli a Auschwitz il 5 aprile
1944, e ucciso il 10 aprile 1944. Compare nell'elenco dei deportati
della Repubblica di Salò . Lea Rabin mi riconduce verso il divano a
fiori. Con noi è sua figlia Dalia, suo figlio Yuval vestito con i
blue-jeans e una maglietta Lacoste, i nipoti. La casa di Niva, dove
pranzammo insieme a Yeoshua, è poco lontana. Rabin era seduto a
sinistra, mangiava poco, teneva un piccolo calice di vino rosso in
mano, mi disse che come noi toscani, lui beveva solo vino rosso; il
salotto era modesto; modesto e pieno di energia il gruppo di
battaglia, formato da lui, da sua moglie, da Yeoshua, da altri
scrittori e intellettuali presenti, dalla sua ex segretaria, da
Barak, dalla sua ex aiutante, dagli altri pochi che si erano riuniti
quel giorno, condividendo questo senso tutto israeliano del fare
insieme, di costruire, di continuare a mettere in piedi questo Stato
non ancora ben definito. Lea, che questa domenica parlerà in piazza,
non può smettere di costruire. Lea Rabin ci ha voluto mettere a
parte di un suo privato nocciolo di memoria e di sofferenza, quello
della deportazione e della morte in un campo di sterminio del suo
nonno russo, un'urgenza emozionante, inaspettata, mentre il mondo
vive con lei il suo grande lutto pubblico. È stato come entrare due
volte dentro un nucleo di emozione domestica, e nello stesso tempo
mitica, nella semplice casa del capo d'Israele, del Premio Nobel
fondatore del processo di pace, e insieme fra gli oggetti e nel cuore
della sua compagna di vita. Fiamma Nirenstein