Fiamma Nirenstein Blog

REPORTAGE IL NATALE NELLA CHIESA DELLA NATIVITÀ La Messa nella città passata al potere palestinese dopo la lunga occupazione israeliana Betlemme, bac io di mezzanotte L'abbraccio tra Arafat e il patriarca latino

mercoledì 27 dicembre 1995 La Stampa 0 commenti
BETLEMME TRA i canti di Natale, finita la Messa sulla soglia di Santa Caterina, la chiesa della Natività di Gesù Cristo, monsignor Michel Sabbah ha salutato, benedicendolo, Yasser Arafat che aveva assistito al rito; a sua volta Arafat ha benedetto monsignor Sabbah, afferrandogli la testa calva con la mano sinistra e tirandola verso di sé per un bacio. La coincidenza straordinaria della liberazione di Betlemme e dell'avvento dell'Autonomia palestinese non sarà mai più dimenticata. Per la prima volta i festeggiamenti si sono svolti sotto il suo governo. Nelle moltissime, infinite ore di danze, canti natalizi, mortaretti, luci colorate con cui fin da giovedì la popolazione di Betlemme ha celebrato il doppio evento, alla fine si è sciolta anche la paura che i leader cristiani non osavano confessare apertamente: restare in balia del fratello musulmano più potente, e spesso anche prepotente. Nel pomeriggio, quando monsignor Sabbah è arrivato a piedi da Gerusalemme alla testa della tradizionale processione, questa volta, però , infinitamente più festosa e rumorosa di quelle degli anni passati, i cristiani si sono sentiti per un momento rassicurati, i padroni della città . Oltre ad Arafat, giunto il giorno prima, finalmente arrivava anche la Chiesa, arrivava anche il depositario del verbo di Cristo che nella circostanza, tuttavia, coincideva con la verità nazionale dei palestinesi. I bambini cantavano a squarciagola, i tamburi non avevano mai rullato più forte. Dalla tomba di Rachel, ultima roccaforte ebraica dove la polizia israeliana a cavallo aveva lasciato Sabbah e il colonnello Udi Zrachya, il coordinatore del governo israeliano per Betlemme, si era separato da lui, il sindaco di Betlemme, il cristiano Elias Frej, e un gruppo di cavalieri palestinesi armati hanno preso ad accompagnare Sabbah verso una Betlemme sempre più tripudiante. Si sentiva per tutta la strada, che è lunga pochi chilometri, e dalla quale si vedono il deserto, le palme, le piccole case bianche degli arabi, che a Betlemme il patriarca, i cavalieri, gli uomini armati, gli scout con i tamburi e le divise avrebbero trovato non solo la massa festante, con i suoi ricordi di oppressione; non avrebbero trovato soltanto la memoria delle prediche dure e intensamente patriottiche che Sabbah ogni anno rivolgeva ai suoi fedeli e ai turisti provenienti da tutto il mondo, ma che ad aspettare c'era Arafat in persona. Arafat, il capo dei palestinesi, ormai da ventiquattr'ore ospitato nel patriarcato greco-ortodosso insieme con la moglie Suha e la bambina. Questo pensiero era sufficiente a dare al corteo una straordinaria energia: pensare Arafat a poche centinaia di metri di distanza, intento a ricevere uno dopo l'altro gli uomini eminenti della nuova Autonomia palestinese, occupato nella preparazione delle liste elettorali, a discutere di economia, di potere, in sostanza di futuro palestinese, mentre le donne cristiane portavano il tè e servivano le torte preferite dal Rais. Fino a mezzanotte, mentre nelle case cristiane si preparava per la prima volta da 28 anni il cenone di Natale (molte adornate di panettone, perché esiste a Betlemme un retaggio italo-cattolico che attraverso i francescani e le monache insegna a mangiare e a pregare in italiano), la popolazione cristiana e musulmana ha seguitato a sperimentare in piazza il piacere della libertà : niente più posti di blocco, niente più documenti da mostrare andando a messa. Durante la Messa la chiesa in cui sedeva Arafat accanto al sindaco Frej quasi si librava di palpabile eccitazione nel momento dell'Eucaristia, durante la predica, in cui di nuovo si avvertiva la presenza dell'uomo Arafat, nel banco d'onore al posto di quella dei notabili israeliani che negli anni passati venivano a partecipare al rito cristiano. Poco lontano dalla piazza, dai fuochi d'artificio, nella lunga serata limpida e poi nella notte di Betlemme piena di stelle, d'improvviso cade l'iconografia natalizia; gli strani simulacri d'importazione americana, i Babbo Natale rossi con la barba bianca piantati in mezzo a tanti uomini in carne e ossa con le barbe nere, svaniscono nell'aria. Nelle case di Betlemme e nelle sue immediate vicinanze succede qualcosa di molto più drammatico e straordinario di quello che si vede in piazza. Sulla strada che dalla tomba di Rachel porta in paese c'è la fortezza inglese, che fino a ieri ha ospitato l'esercito e i servizi segreti israeliani, lo Shabbach. Adesso, in questa casa quadrata dotata di un cortile interno, è stata issata la bandiera palestinese, e gli uomini in divisa e coi baffi neri si appropriano lentamente non solo delle stanze semivuote, ma del significato stesso della loro presenza in questo luogo. Ci raccontano che prima di andarsene per ore e ore i responsabili militari israeliani e quelli palestinesi si sono seduti insieme, in una specie di potere: come quando e dove mettere le bandiere, come suonare la fanfara, come condurre le cerimonie di onore, di benvenuto, di insediamento, di saluto, come essere d'un tratto uno Stato. È ben strano immaginare che amichevolmente ebrei e palestinesi abbiano programmato e studiato il futuro in queste stanze ormai nude da cui gli israeliani hanno portato via mobili e suppellettili e tutti i segni di un potere che a loro stessi è risultato troppo duro da sostenere. Proprio qui ora si aggirano per un comprensibile scherzo della sorte, in vesti completamente nuove e diverse, gli uomini che lo Shabbach usava interrogare, sottoporre a dure pressioni anche fisiche, tenere in isolamento negli zinoch, stanzette più basse di un uomo e corte poco più di un metro. Ce le mostra Maj el-Faraj, oggi vicecapo della sicurezza, ieri uno dei capi dell'Intifada. Era sempre in prigione, sempre sotto inchiesta, ora ci conduce da uomo della gerarchia palestinese nelle stanze dove lo hanno - racconta - picchiato, torturato. Anche se qui, dice, a Betlemme, non era così terribile come ad Atlid, dove gli uomini di Fatah venivano presi insieme con quelli di Hamas, e quello che toccava ad Hamas, cioè le punizioni peggiori, toccavano anche a Fatah. Era brutta anche a Hebron dove Nadem, 28 anni, racconta di essere stato trattenuto per 60 giorni senza potersi mai lavare. Era terribile; gli davano un bicchier d'acqua e un sapone e gli dicevano: lava il pavimento. Nella memoria di Maj el-Faraj ci sono terribili racconti; li fa mentre si sentono in lontananza i botti dei fuochi d'artificio e Babbo Natale porta i suoi regali a Betlemme. Si accende una sigaretta dietro l'altra, non sente freddo in un maglioncino bianco e nero di sintetico, gli manca qualche dente. Parla di molte notti su un pavimento freddo, nemmeno lungo abbastanza per distendere il corpo, e di una sola coperta da tirarsi addosso. Non piange, non ride: costruisce parola dopo parola il mito di fondazione dei palestinesi, e lo costruisce tutto a base di sofferenze e di torture. Ma anche col sangue del nemico, perché non nega affatto di avere a sua volta assalito, vendicato, ucciso. È una storia di sangue, come lo sono molte storie di fondazione nazionale, mentre Arafat, poco lontano, dentro la chiesa, abbraccia monsignor Sabbah, e si occupa dei festeggiamenti. Di nuovo torniamo dentro il chiasso natalizio, poco lontano dalla piazza Manger. Dentro un bambino grassissimo e felice si fotografa abbracciato alla sua mamma, anche lei molto abbondante, ingioiellata e strizzata da un'alta cintura per la foto ricordo del giorno cruciale: tutto regolare, solo che il bimbo - avrà 12 anni - stringe in mano un fucile M16, vero, preso agli israeliani. Dove l'ha preso? L'ha preso. Un'eredità guerriera mista oggi a zucchero filato. Fiamma Nirenstein

 Lascia il tuo commento

Per offrirti un servizio migliore fiammanirenstein.com utilizza cookies. Continuando la navigazione nel sito autorizzi l'uso dei cookies.