REPORTAGE IL GIORNO DELLA SCELTA In coda fra le tribù di Israele Ai s eggi i segni esteriori della spaccatura
giovedì 30 maggio 1996 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV SULLO schermo televisivo che alle 10 di ieri sera ha mandato
in onda le proiezioni con la notizia della vittoria (per ora
presunta) di Shimon Peres si è schiantata la tensione che non si era
potuta esprimere durante la giornata, e durante tutta la campagna
elettorale. Una tensione grande come la posta in gioco, così
passionale che non la si poteva esprimere a gocce, ma solo tutta
quanta insieme. Il popolo di Peres, raccolto al Cinerama di Tel Aviv
in attesa del capo, ha urlato di gioia; intanto, nell'immensa sala
dove sedeva la gente del Likud, si spegneva almeno in parte il sogno,
e sopravveniva il silenzio. La gente di Peres ha cantato, ha
sventolato bandiere, la folla delle televisioni di tutto il mondo si
è avventata sui leader laboristi. Poi, nella notte, la gente è
andata in processione cantando: ,
respirando l'aria marina di Tel Aviv. Intanto le feste più
inaspettate e gioiose si svolgevano nelle sedi dei piccoli partiti: a
Gerusalemme i religiosi di Shas hanno ballato in onore dei loro 9
seggi; i russi di Sharansky hanno bevuto e festeggiato una vittoria
piena; i radicali del Meretz hanno cantato il loro inno, Shir la Sha
lom. Il popolo del Likud ha seguitato a resistere a lungo alle
cattive notizie, nonostante le facce innervosite dei leader; ha
seguitato a discutere incredulo sui marciapiedi delle città , a
inneggiare a Bibi primo ministro. Israele è rimasta elettrica,
accesa tutta la notte. Come se finalmente si fosse liberata tutta la
frenesia contenuta fino al giorno stesso delle elezioni. In lunghe
code silenti, appaiono acquattati nell'attesa gli israeliani nelle
ore che precedono il big-bang del risultato elettorale fatale, la
scelta fra Peres e Netanyahu. Israele, sotto un sole caldo ma non
crudele, sembra un grande, multiforme felino pronto al balzo; il
puzzle della sua popolazione mescolata, con le carte d'identità in
mano, in coda nei seggi nelle grandi scuole moderne di Tel Aviv, dove
i ragazzi in maglietta e orecchino giocano in cortile a
pallacanestro; o in quelle di pietra e rampicanti di Gerusalemme, non
è mai apparso così separato. Non si vedeva più , ieri, la faticosa
mescolanza conquistata da russi e yemeniti, polacchi ed etiopi,
religiosi e laici, marocchini e americani fino a spezzare le
divisioni culturali e di classe. Durante le elezioni di ieri
riappariva la crepa sociale e antropologica: li vedi subito, chi vota
Peres, chi vota Bibi. Chi accetta l'avventura del processo di pace,
chi si può permettere il rischio; chi invece non vuole spendere la
moneta della sicurezza per un bene che comunque non è mai stato
conosciuto, ed è lontano. Un giovanotto gentile ed espansivo, gli
occhi neri neri, di nome Jossi, di sicura origine nordafricana, che
lavora nella sicurezza alla scuola Barilan, in un grande viale di Tel
Aviv, dice che aspetterà in coda anche ore per un voto così
importante:
rivoluzione. Si volta verso di lui un altro giovane che ha i capelli
già un po' grigi, meno scuro, meno atletico, si chiama Emanuel, è
un manager nel campo della Borsa:
l'abbiamo già fatta quattro anni fa, è già qui, perché non la
vedi?. Un'anziana signora abbigliata all'europea, con i guanti, gli
occhietti azzurri annuisce guardando Emanuel:
stufi, voi giovani? - chiede a Jossi -. Non abbiamo, non avete già
sofferto abbastanza?. A Gerusalemme, nel quartiere di Mea Sherim, i
religiosi, forti ormai della loro indicazione di voto per Bibi, vanno
verso i seggi tirandosi dietro tribù di bambini; chissà se credono
davvero che Netanyahu, che certo non ha nessuna patente di santità
religiosa, possa restituire a Israele, come dicono,
sempre all'improvviso nei momenti di non eccessiva tensione.
Seicentocinquantamila arabi israeliani sanno benissimo quanto sia
diventata improvvisamente importante per Peres la loro preferenza, e
quanto Peres più del solito potrà , se vince, influenzare il loro
futuro. Un loro seggio, a Jaffa, è invaso dalla troupe della tv
giapponese che chiede a ogni donna col velo in testa, per favore, se
non abbia per caso votato scheda bianca per il primo ministro. Ma no,
non è così : un musulmano religioso con la barba nera e un golf
ricamato tipo Missoni fa da portavoce a tutti i religiosi presenti
nel seggio: hanno votato tutti per Darawshe al Parlamento, e per
Peres come premier. Ci tengono al processo di pace, e anche se Peres
non è migliore; certamente Bibi, però , è il peggiore. Verso sera
le due sedi dei partiti, il Likud e il Labour, cominciano ad
animarsi, la tensione diventa elettrica: il Likud ha un palazzone a
pochi metri dal Dizengoff Center, l'ultimo teatro del terrorismo
islamico. Adesso è pieno di gente. Silenzioso rimane solo, al primo
piano, il Museo che parla di Gabotinskij, uno dei più antichi padri
della patria d'Israele, uno dei più severi e anche violenti. Il
partito di Peres, a pochi metri dal mare, è tutto ornato di festoni
e di bandiere. Gli attivisti vanno e vengono, col passare delle ore
compaiono i leader. Ma il popolo dei due partiti corre con le
automobili verso i due grandi teatri affittati apposta per la
vittoria in modo da sistemare gli altoparlanti, gli striscioni
bianchi e azzurri, per distribuire lo sciame dei giornalisti
televisivi e della carta stampata che si sono rovesciati a Tel Aviv.
Di nuovo Israele fornisce al mondo il grande spettacolo della pace e
della guerra. Israele è di nuovo, volente o nolente, il centro
dell'attenzione del mondo con uno spettacolo oltremodo drammatico, a
pochi mesi dall'assassinio di Ytzhak Rabin. Fiamma Nirenstein