REPORTAGE IL CARNEVALE MACCHIATO DI SANGUE Appuntamento in piazza con il massacro quotidiano
martedì 5 marzo 1996 La Stampa 0 commenti
MORIRE per la strada, morire andando a comprarsi un vestito, o a
mangiare la pizza, morire da ragazzi aspettando gli amici al cancello
numero 17 del Dizengoff Center, il centro commerciale su cui tutta
Tel Aviv converge. A duecento metri da dove scoppiò l'autobus numero
5. La guerra è ormai totale. Dopo aver colpito il cuore di
Gerusalemme, adesso l'odio si configge nel centro di Tel Aviv, in un
messaggio di aggressione totale, appesantito dallo sberleffo della
ripetizione. Ora non solo Gerusalemme è il regno della paura;
possono essere ormai ovunque gli uomini bomba, carichi di morte per
chi meno se l'aspetta; è legittimo ormai aver paura ovunque e in
ogni momento. È il peggiore degli incubi quello che si sta vivendo
in Israele. L'odio si è rovesciato per strada, dentro i confini,
senza una guerra dichiarata, in pieno processo di pace, senza che la
gente possa reagire. Un uomo carico di 20 chili di tritolo, come
quello che è saltato per aria nel paesaggio postmoderno della Tel
Aviv pacifista, laica, depurata di simboli ideologici, può agire
ovunque e sempre, perfino domattina o fra un'ora, di nuovo. Finora
erano gli autobus l'obiettivo, adesso può essere qualsiasi luogo
pubblico. E se viene scoperto, il suicida terrorista non chiede di
meglio che farsi saltare per aria portando con sé chi si trova
d'intorno; e volare in paradiso come gli hanno promesso nella sua
moschea. Alle 4,05 del pomeriggio in tutto il centro si è sentito lo
scoppio, identico a quello di qualche mese fa, dell'autobus numero 5.
Il Center è fatto di un grattacielo unito da un ponte a un edificio
più basso. Ora il ponte è a pezzi. Dentro il centro commerciale
c'è di tutto, Mc Donald's, Burger Ranch, i gelati, i negozi di
abbigliamento e di sport, dischi, computer, giocattoli, e molte cose
che interessano i giovani e i bambini. Non c'è niente di più
comune, a Tel Aviv, che darsi un appuntamento all'incrocio fra via
King George e Dizengoff. King George porta al Centro la gente che
viene dalla periferia Sud, dove vivono i più poveri. Dizengoff
attraversa tutta la città fino alle belle case della zona Nord. Due
flussi di folla si sono creati immediatamente dopo lo scoppio. Tanti
ragazzi che si sorreggono l'un l'altro sciamano disordinatamente,
fuggono. Incrociano e urtano chi corre, invece, verso il luogo del
disastro. Dietro di loro c'è un mare di sangue, si parla di membra
divelte, di una testa staccata di fronte al bancomat della banca
all'angolo. Molti di quelli che si allontanano non sentono più
niente: le orecchie fischiano, rintronate dallo scoppio. Per lo più
piangono quelli che si allontanano, di quel pianto che non dà il
dolore ma che nasce dallo sconcerto più profondo, come di un bambino
abbandonato in mezzo a una tempesta. Mentre urlano le sirene delle
ambulanze e della polizia, quelli che arrivano correndo non sono per
lo più dei curiosi. È tutta gente che ha un interesse specifico ad
essere là , a penetrare quella che ormai è una cintura di uomini
della polizia militare, di soldatesse con i calzini arrotolati che
piangono anche loro, di giovani che si dispongono a barriera contro
la folla e lasciano entrare le troppe ambulanze che seguitano a
portare verso l'ospedale Ichilov, quello dove è morto Rabin, un
numero infinito di feriti e fra loro, si dice, tanti bambini. Un
giovane gigantesco, muscoloso, si avventa contro un poliziotto
perché lo lasci entrare: mia madre, mia madre è là ; siete pazzi,
non mi lasciate andare a cercare mia madre? Si cerca di tenerlo
fermo, e lui reagisce con una forza che viene ingabbiata solo quando
lo imprigionano in cinque. Sono soldati che gli parlano piano,
affettuosamente, gli dicono che si sta ancora cercando qualche bomba
nascosta, qualche kamikaze pronto fra la folla a colpire ancora.
Dov'è mio figlio; mio marito ha il negozio là dentro; ecco vede
quella finestra sventrata, con le tende che ciondolano fuori, là
dentro la banca? È l'ufficio di mia moglie; quella casa di fronte al
terzo piano è casa mia. Mi lasci entrare. Avevo fissato
l'appuntamento davanti alla Benetton alle 5 e mezzo; Dio mio, che non
sia arrivato mezz'ora prima. Sullo spiazzo silenzioso pieno di sangue
non c'è neppure un autobus o una macchina contorta a conferire
realtà fisica alla tragedia. C'è solo silenzio, solo gli uomini che
raccolgono i morti, le membra, i feriti. Ieri era il giorno di Purim,
il carnevale ebraico: i ragazzi delle classi superiori non sono
andati a scuola, e quindi hanno cercato il divertimento al Dizengoff
Center. Ragazzi con l'orecchino, la coda di cavallo, una maglietta
slabbrata, preferibilmente nera. Ora le famiglie li cercano
disperate. Qualcuno racconta che si è salvato solo perché ha visto
una camicetta che gli piaceva, ed è quindi entrato in un negozio che
gli ha fatto da rifugio; un altro, che si era stufato di stare in
coda di fronte al bancomat, e che si è allontanato un minuto prima
dello scoppio. Un padre è passato tenendo per mano la sua bambina di
3 anni due minuti prima dell'esplosione. È facile che questo accada:
almeno due volte a settimana, chiunque viva a Tel Aviv entra al
Center, per comprare qualcosa o per bere un caffè . La roulette gira
per tutti in Israele. Ha smesso di girare ieri soltanto per quelle
povere vittime i cui corpi sono sparsi sul marciapiede del luogo più
alla moda, più disimpegnato, più allegro di Tel Aviv. Shimon Peres
arriva accolto dai soliti fischi. La gente, ormai fuori di sé , grida
, . Il capo dell'Agenzia ebraica
Avraham Burg dirà più tardi alla televisione che la festa di Purim
ripercorre per l'ennesima volta una battaglia di sopravvivenza del
popolo ebraico, quando esso riuscì a sconfiggere Amman, il perfido
persecutore dei tempi assiro-babilonesi. Peres, dice Burg, è l'uomo
che più di tutti ha sognato di porre fine con la pace ad una vicenda
tragica che dura ormai da millenni. Ora bisogna aiutarlo a non
perdersi d'animo, ed essergli vicino nella grande difficoltà che
attraversa. Ma la gente urla. Peres è certo convinto in queste ore
che il processo di pace non debba essere abbandonato, ma nello stesso
tempo sente che Israele deve tornare ad essere forte, capace di
fidare su se stesso e di uscire dalla paura. La paura è una
condizione di vita che caratterizzerebbe Israele in modo totalmente
opposto a quello voluto da Ben Gurion, dai pionieri, e via via dagli
uomini di Entebbe, del rapimento di Eichmann, delle vittorie
miracolose a partire dalla guerra del 1948. Qui, ormai, non si fa che
piangere, non si vince più , si passa soltanto di lutto in lutto. Per
un Paese di 4 milioni di abitanti, 70 morti in una settimana è come
in Italia più di 1000 morti, e tutti nei centri delle maggiori
città . Peres ormai sta per agire, e probabilmente questo salverà
anche il processo di pace. Fiamma Nirenstein
