REPORTAGE AL CONFINE DELL'ODIO Nella Galilea ferita
sabato 13 aprile 1996 La Stampa 0 commenti
KIRIAT SHOMAH È arrivata la seconda fase del processo di pace: la
guerra contro gli hezbollah. Ieri, dopo i botti delle katiushe,
l'odore di sparo resta incredibilmente a lungo nell'aria di Kiriat
Shomah. Case spezzate, un centro acquisti colpito, civili feriti. A
un crocicchio resta l'auto bruciata da quella pioggia di fuoco con
cui gli hezbollah hanno dato la loro risposta il mattino dopo
l'attacco israeliano di giovedì . Poi un'altra scarica di katiushe al
pomeriggio. Una donna è all'ospedale in fin di vita, altri feriti
sono stati portati via dall'alta Galilea verso gli ospedali fuori
della linea del fuoco. Le ambulanze lampeggiano in fila. Le montagne
verdi e piene di fiori spartiscono la linea di due drammi, quello
israeliano e quello libanese. Lungo le strade che portano al confine
si ripete la scena che Israele ha visto mille volte: lunghi convogli
di cingolati carichi d'armi; file di camion con funzioni logistiche.
Andirivieni di soldati con le facce molto stanche, di soldatesse che
prenderanno cura delle funzioni tecniche e dei delicatissimi congegni
bellici. Come va? . Paura?
parlando?. La guerra è un riflesso condizionato per Israele. La
guerra è un imperativo categorico articolatosi in cinquant'anni di
esercizio, di comportamenti, che tre anni di processo di pace non
possono smontare allorquando si presenti il pericolo. Su in cima al
monte, mentre sta per scadere l'ultimatum con cui l'esercito
israeliano chiede alla popolazione dei villaggi sud-libanesi di
evacuare le case entro le quattro e mezzo del pomeriggio, saliamo per
vedere la postazione israeliana che ogni dieci minuti spara i suoi
proiettili da 175 millimetri sulla valle sottostante. I cannoni
montati su mezzi cingolati sono disposti a semicerchio in cima al
monte, i botti sono incredibili. Ognuno dei proiettili verdi viene
prelevato dalle file ordinate situate contro il panorama pastorale.
Il cingolato rincula, la terra trema, il proiettile scaraventa la sua
potenza sulla vallata, il rumore è come di tuono. Questa cresta di
monte separa due paure. Di qua Kiriat Shomah e tutta la Galilea, su
cui i proiettili delle katiushe scavano crateri e portano via vite
ormai da troppo tempo. Di là , la grande paura dei libanesi che sotto
il sole del primo pomeriggio fuggono, creando terribili ingorghi
nelle strade, disperandosi e maledicendo, trascinando via i bambini e
i vecchi, mentre l'artiglieria israeliana a intervalli regolari crea
un fuoco di sbarramento. Per le strade la gente che vive al fronte
israeliano non resiste a lungo nei rifugi; un israeliano deve
reagire, deve partecipare, deve uscire. Qualcuno arriva da Tel Aviv
dove la sera avanti aveva condotto la famiglia presso qualche parente
e amico, per vedere in che stato sia la sua casa. Un botto:
loro; no, siamo noi; certo, siamo noi; il rumore della katiusha è
completamente diverso; ecco, non lo senti, è quello, quello col
sibilo; invece, questo schianto, è la nostra artiglieria. Quanti
colpi di artiglieria. Stavolta gliela facciamo pagare. Una donna
arriva correndo da dentro il rifugio. Ha l'accento marocchino, la
casa è povera come la maggior parte delle case di Kiriat Shomah:
nel rifugio. Nei rifugi sono rimaste alcune famiglie, i vecchi,
alcune giovani coppie idealiste che non vogliono rinunciare a nessuna
delle loro scelte di fondo. Vivere al confine, vivere in Galilea, o
è una necessità di poveri, oppure è una scelta ideale, di vita, a
volte una scelta ecologica e di sinistra. Tuttavia chi ha potuto
mandar via i bambini li ha evacuati, li ha situati in altre
comunità , nei kibbutz del centro di Israele, ed è così
inverosimile una piccola città israeliana senza quei soliti grappoli
di ragazzini incontrollati, rumorosi, sempre, in questo Paese, i veri
principi della situazione che invadono la vita di ogni giorno senza
controllo. Ecco che arriva il primo ministro, Shimon Peres, siamo
alla fine della mattinata: in una baracca del comando Nord
dell'esercito, ci frugano uno per uno, minutamente e anche gli anchor
men televisivi israeliani più famosi vengono frugati. Da una porta
entriamo noi, i giornalisti, poi le telecamere. Quando siamo tutti
seduti, Peres compare da un'altra porta, seguito da alcuni dei suoi
ministri ma soprattutto fianco a fianco, spalla a spalla col suo
ramatkal, il capo di Stato Maggiore Amnon Lipkin Shachak.
Dall'atteggiamento del primo ministro e dalle sue parole, si capisce
benissimo che l'intenzione che lo domina è strategica, e non
tattica. Peres di nuovo, seppure molto diverso dal solito leader
intellettuale e diplomatico, in un giubbotto blu lucido con sopra
scritto ricamato il suo nome come fosse un ragazzo o un soldato,
porta sul volto un'espressione, per così dire, storica, forse
ispirata. Come ha sempre parlato di pace, così adesso parla di
guerra. Ripete che nessuno può costringere Israele a subire
violenze; che gli hezbollah porteranno grande rovina alla popolazione
libanese se non cessano dai loro attacchi; che l'unico nemico di
Israele in questo momento sono gli hezbollah e non i libanesi né i
siriani e né tantomeno la popolazione civile in ostaggio degli
integralisti islamici; dice anche che Israele non ammira i
territoriali. Però Peres dimostra una precisa ripetuta
determinazione nel dire, mentre fuori delle baracche gli elicotteri
Apache ci sorvolano verso il Libano con un rumore massivo e
convincente, che questa non è solo una rappresaglia, ma è il
tentativo di convincere lo Stato libanese a fare un ordine
definitivo, e che Israele sa prendere decisioni difficili, drastiche,
di lunga durata, che ci vorrà il tempo che ci vorrà , ma i cittadini
del Nord Israele devono poter dormire e vivere tranquilli. Come dire
che i tempi della pace stanno subendo un inevitabile stallo: da una
parte dopo gli attacchi terroristici di Hamas, anche se Peres ha
risposto senza ricorrere ai carri armati, hanno portato il governo
israeliano alla chiusura dei Territori. Dall'altra, contro i grandi
nemici di Israele, gli hezbollah, ecco che ora volano gli Apache, e
si muovono i cingolati con un lavoro a tappeto, che si avvia a
diventare sempre più simile a una guerra e che nelle ore a venire
smuoverà masse di gente dalle loro case, spargerà lutti ed è
arrivato ieri persino a colpire (anche se forse per caso) un
obiettivo militare siriano sito dentro il Libano. Sembra dunque che
per Peres sia arrivato il tempo della grande guerra contro
l'integralismo islamico, e questo per lui, che certo non si vuole
giocare il ruolo storico di premio Nobel, di pacifista, di padre,
insieme a Rabin, della pace mediorientale, dev'essere stata una
scelta davvero dura, strategica, inevitabile. La sua faccia tirata ma
molto compiaciuta e convinta consegna al pubblico un messaggio molto
chiaro: se io vi piaccio, se vi piace la pace, sia chiaro che l'unico
modo per ottenerla è fare fuori l'integralismo islamico. Dopo i
giornalisti Peres incontra la gente del confine, fa la sua
passeggiata sotto le katiushe. Sulle alture sopra Kfar Gilad, sul
piazzale di Parag Raam da cui si spara, avviene la solita
sconcertante scena che dà un esercito di popolo. I ragazzi sparano,
alcuni giovani comandano con parole dure certi quarantenni che stanno
svolgendo il loro servizio di miluilm. Nelle tende le ragazze
lavorano alle radio. Mentre si spara uno dei soldati di riserva,
tutti i capelli grigi, resta pertinacemente attaccato al telefono:
parla in francese con Milano. Fissa una riunione di lavoro per
lunedì prossimo. Chissà cosa sarà accaduto, qui e in Libano,
lunedì . Fiamma Nirenstein