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REAZIONI LE COLOMBE LACERATE Pace, l’ora dei pentiti

martedì 24 gennaio 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV IMBARAZZO, tensione mal contenuta, senso di smarrimento, interrogativi che circolano ormai anche a sinistra. Forse è il caso di ripensarci, forse la pace non funziona. Gli uomini del valoroso governo che ha stretto la mano ai palestinesi e a buona parte del mondo arabo non ce la fanno più a contenere tutte queste lacrime sui corpi straziati dei giovani uccisi a Beit Lid l’altro ieri, le testimonianze dei parenti, degli amici, dei compagni d’armi, delle fidanzatine che si susseguono fra i singhiozzi alla televisione. La gente per strada commenta: creduto. Ma ditemi voi, questa possiamo ancora chiamarla pace?. L’opposizione, a rimarcare l’imbarazzo del governo che non riesce a garantire la sicurezza e che conta ormai dall’inizio del processo di pace 100 morti per attentati terroristici, tace, si astiene. Bibi Netanyau il leader del Likud fa il signore, non attacca. Aspetta come un gatto che la preda, il governo, gli cada fra le mani. Rabin accusa la botta che gli ha tirato il Presidente della Repubblica Ezer Weizman. Tanto da dover specificare alla stampa di non essere arrabbiato con lui. Ma, come le voci fuggite dal suo gabinetto ripetono, Rabin è alquanto turbato poiché Weiz man, che ha dichiarato che forse è meglio fermare tutto e ripensare per intero il processo di pace, non solo è un uomo sincero, che se ha violato il protocollo lo ha certo fatto al di là di qualsiasi disegno e solo per dar voce a un sentimento popolare e alla gravità dell’ora; ma ancor più perché Weizman è una colomba di provata fede, un sostenitore del processo di pace e degli accordi di Oslo. E il fatto che il Presidente si mostri pentito ha dato la stura a una serie di ripensamenti a catena, tutti quanti interni al governo: chi se lo sarebbe aspettato che Uzi Baram, il più pacifista tra i ministri del governo Rabin, avrebbe dichiarato che perseguire la pace, devi essere un falco nel campo della sicurezza. E se il governo vuole il sostegno dell’opinione pubblica, non può che prendere misure consistenti e anche estreme su questo terreno. Tre ministri, Shitrit, Kessar e Ephraim Sneh hanno proposto che le famiglie dei terroristi suicidi vengano deportate; altri, sempre di provata fede pacifista, Micha Harish, Yossi Sarid, Amnon Rubinstein, tutti quanti personaggi che ai tempi in cui parlare con l’Olp era fuorilegge, hanno condotto battaglie personali molto coraggiose, richiedono adesso lunghe chiusure dei Territori, assai più severe di quelle che Rabin ha finora accettato. Quel che più impressiona è che la sensazione da stato d’assedio sia estesa ai mezzi di comunicazione di massa, e specialmente ai due quotidiani principali Yediot Aharonot e Maariv; i titoli di prima pagina sono enormi e molto dolorosi () sopra la fila dei volti da bambino degli uccisi. E i commenti, unanimemente, senza eccezione, accolgono la proposta di Weizman. I ragionamenti sono semplici e pesanti: Sever Pluzker sostiene che l’integralismo islamico non tende affatto a bloccare il processo di pace, ma, al contrario, contando sulla volontà degli israeliani di tenerlo in piedi a tutti i costi, compie un forte gioco di sponda in favore dei palestinesi. Ed essi comunque, sostiene Pluzker, non hanno interesse a combattere contro i terroristi. Che cosa gliene verrebbe infatti? Il suggerimento conseguente è quello di seguire l’esempio di Arafat ai tempi della strage di Hevron: rompere le trattative finché l’interlocutore stesso si accorga che è anche suo interesse battere il terrorismo. Altri commentatori mettono in discussione la capacità stessa di Arafat di controllare il processo di pace, e quindi (sulle tracce di Weizman) l’utilità di seguitare a trattare con lui. Altri ancora, e sono la maggioranza, attaccano Rabin ricordando senza pietà il suo famoso esaurimento nervoso con conseguente sparizione durante la Guerra dei Sei Giorni. Ron Miberg scrive sul Maariv che Rabin è centralista, megalomane, e che dovrebbe cedere almeno il ministero della Difesa; inoltre, se non vuole trascinare il partito a sicura sconfitta, a un vero e proprio suicidio politico, sostiene l’editorialista, dovrebbe cedere la presidenza del Consiglio a Shimon Peres. Ma tutte queste convulsioni per il momento non intaccano la sostanziale volontà del governo di andare avanti sulla strada di Oslo: Rabin e Peres seguitano a ripeterlo, la destra sa che comunque non esiste per Israele alternativa autentica possibile, nel futuro, a quella della pace. E tutte le misure prese dal governo non sono in realtà così pesanti: persino la chiusura dei Territori è stata stabilita per un tempo breve. Forse la decisione meno propagandata dal governo, ovvero quella di dare mano libera allo Shabbah, i servizi segreti, nei Territori, è quella più effettiva. Infatti se Rabin riuscisse a mettere a segno una buona operazione di polizia, la popolazione, e quindi anche il governo si sentirebbero infine rassicurati. Fiamma Nirenstein

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