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REAZIONI LA RAGIONE CONTRO LA RABBIA Rassegnati al Ma l’intero Paese grida: Arafat, perché non parli?

venerdì 8 aprile 1994 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV NEI giorni in cui gli Scud di Saddam Hussein piovevano su Tel Aviv, il mondo sospese il respiro aspettando una dura reazione israeliana, che non venne mai. Pronti a difendersi, tuttavia gli uomini di governo valutarono che l’intervento israeliano avrebbe acceso una lunghissima miccia in tutto il Medio Oriente, e fra lo stupore generale Tsahal, l’esercito poderoso e sempre in armi, non mosse aereo né carro armato. Adesso, dopo l’attentato di mercoledì e quello di ieri, di nuovo, invece di toni irati e minacciosi nei confronti dei palestinesi o anche semplicemente nei confronti del processo di pace, la gente di qui ha udito voci accorate e stanche di membri del governo che parlavano alla radio, ha visto alla televisione occhiaie e segni di un’invincibile stanchezza. È un giorno difficile, difficile... - ha mormorato Shimon Peres - eppure, con tutto il dolore e la rabbia, dobbiamo capire che i colloqui in sé stessi non cambiano le cose, e che solo agendo, realizzando gli accordi si pone fine alla violenza. Yossi Beilin, il viceministro degli Esteri, che ormai da mesi vive in costante compagnia degli uomini di Arafat che gestiscono i colloqui, ha detto in un soffio: dall’una e dall’altra parte che cerca di distruggere tutto. Ma anche se nella rabbia e nel dolore non abbandoneremo i nostri impegni. Intanto l’opposizione, soprattutto il capo del Likud Bibi Netanyahu e l’ex premier Ytzhah Shamir, ripete che il processo di pace, lungi dal fermare il terrorismo, ne ha fatto un’arma politica che viene usata attivamente dai palestinesi. Che l’Olp non è Hamas, ma che tuttavia approfitta delle azioni dei terroristi per alzare il prezzo, e che esiste un legame soggettivo, oltre che oggettivo, fra l’azione di Arafat al tavolo delle trattative e le bombe contro i civili. Ma soprattutto, Shamir e Netanyahu hanno detto parole amare sulla passione con cui il governo aveva condannato la strage perpetrata da Baruch Goldstein a Hebron accompagnata anche dalle immediate misure legali contro il gruppo estremista Kach, e per contro sulla mancanza di una pronta reazione alle stragi di civili da parte di Yasser Arafat. In queste giornate di attentati Rabin, Peres, Beilin, e gli altri uomini del governo hanno atteso un cenno dal capo dell’Olp, Un gesto di cordoglio, una condanna. Ma non è giunta neppure una parola in prima persona. E Peres ha espresso il suo personale disappunto. Così le risposte che essi hanno dato all’opposizione sono suonate ragionevoli, ma prive del supporto della novità tanto attesa. Anche durante il governo Shamir, ha detto Peres, c’erano gli stessi terribili attentati che Israele deve soffrire dopo l’accordo di Oslo, e chi siede al tavolo dei negoziati già di per sé mostra la sua volontà di pace e il suo distacco dai terroristi; e finché Gaza e Gerico non passano al controllo palestinese, dice ancora Peres, è difficile che Arafat possa essere in grado di supervedere a tutto ciò che accade nel mondo palestinese. E tuttavia questi argomenti sono stati indeboliti dalla cronaca che i giornalisti israeliani hanno dato delle mosse palestinesi: Arafat all’aeroporto del Cairo si è rifiutato di rispondere a una domanda dei giornalisti israeliani sull’accaduto, ed anzi si è allontanato; ed è trapelata la notizia ufficiosa che Arafat stesso avrebbe mandato un messaggio non certo di condanna al portavoce di Hamas, Ibrahim Rusha. Fatti conturbanti, che certo non fanno pari col messaggio di condoglianze espresse in serata con un messaggio collegiale dell’Olp, insieme con il rammarico per i fatti . A Gaza la mattina di mercoledì la polizia israeliana aveva lasciato, ripulito e preparato un edificio pubblico così da consegnarne le chiavi a mezzogiorno alla neonata polizia palestinese; ma nessuno si è presentato a riceverle e la cerimonia prevista è andata deserta. Debolezza o mancanza di coordinamento con Tunisi? Questa è la domanda che ormai gli israeliani tutti discutono. L’idea che Arafat possa non avere il controllo della situazione spaventa un po’ tutti, ed il suo silenzio da una parte corrobora la paura, dall’altra suscita astio e persino disprezzo. Ieri nel corso di Yom Ha Shoa, il giorno dell’Olocausto, la televisione ha trasmesso incessantemente memorie, documentari e il film di Lanzmann sullo sterminio degli ebrei. La sirena alle 10 ha bloccato tutta la popolazione in un silenzio immoto, carico di memoria. La sera prima al museo dell’olocausto, Yad Va Shem, il presidente Ezer Weitzman e il premier Rabin hanno detto parole di grande pacatezza, nonostante l’attentato della mattina: Israele è un bastione in difesa della memoria, contro l’antisemitismo, contro i rigurgiti di nazismo e di fascismo. Nessuno ha rivolto parole infuocate contro i nemici di oggi; nessuno, come talvolta accadeva in passato, li ha paragonati ai nemici di sempre degli ebrei, gli antisemiti storici. Israele combatte una dura guerra, tratta una difficile pace, ma il tema oggi è ben separato da quello del nazismo e dell’antisemitismo di un tempo. Fiamma Nirenstein

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