Rafah: una porta per l'inferno o per il paradiso?
L’apertura egiziana del valico di Rafah che collega la Striscia di Gaza alla terra dei Faraoni è un altro di quei richiami della cosiddetta Primavera Araba che manda insieme un segnale positivo e uno negativo. Da una parte, l’apertura di Gaza in direzione del mondo arabo è un fatto naturale, uno sviluppo del destino culturale, etnico, di costume di quella parte del mondo palestinese: uno sciamare di gente, di merci verso un mondo che parla la stessa lingua, mangia lo stesso cibo. Con gesto logico questo promette normalizzazione. L’apertura crea almeno in teoria meno tensione e meno rivendicazione verso Israele, cosa che non poteva accadere quando Mubarak teneva chiuso il passaggio verso l’Egitto, perché la crisi umanitaria di Gaza, a volte lamentata a volte semplicemente millantata come ci mostrano tanti documenti, può ora trovare sollievo dalla parte araba del Medio Oriente. Anche le varie Flotille in partenza, non avrebbero più motivo di esistere, almeno nella pratica, basterebbe mandare i beni per Gaza al valico appena aperto: ma la politica è un’altra cosa.
Pretendere, per altro, che sia Israele a tenere spalancate le porte è semplicemente insensato dato che da Hamas, padrone di Gaza, riceve solo minacce di morte continue, missili, terroristi. Ma perché Mubarak teneva la porta chiusa, perché aveva fatto addirittura sigillare con mura sotterranee le gallerie da cui comunque alla fine entrava di tutto? Perché Hamas, organizzazione terrorista categorizzata come tale in tutto il mondo, una delle peggiori e più feroci che si ricordino con la sua carta jihadista e antisemita, è fratello e sodale della Fratellanza Mussulmana: Mubarak la aborriva perché temeva un rivolgimento integralista islamico nel suo Paese.
Di fatto Hamas si era già alleato più volte col suo acerrimo nemico e il passaggio di armi e uomini molto elevato era sponsorizzato sia dalla Fratellanza, che anche oggi risulta l’unica forza ben organizzata del nuovo Egitto (con grave rischio per il futuro della democrazia araba), che dall’Iran, amico intimo di Hamas, suo scherano e braccio armato insieme agli Hezbollah. L’Iran è sciita, come si sa, e con lui la sua milizia libanese Hezbollah, a sua volta impegnata in operazioni che garantiscono una costante minaccia iraniana sui confini di Israele e l’egemonia anche siriana sul Libano, mentre Hamas è sunnita, come anche l’intera Fratellanza Musulmana.
Questo nel passato avrebbe rappresentato un ostacolo nel
rapporto con la Repubblica Islamica degli Ayatollah, ma oggi l’ispirazione
jihadista è più che sufficiente a creare un sodalizio anti occidentale e
antisraeliano. Si ripete con molta insistenza, per esempio, che Bin Laden sia
stato a lungo ospite di Teheran. L’apertura del confine con l’Egitto promette
dunque che la quantità di armi e di uomini che passeranno a Hamas sarà
certamente maggiore, che le centinaia
di proiettili a corto raggio e i missili a lunga gittata, fra i 20 e i 40,
oltre ai 1000 proiettili di mortaio e le svariate tonnellate di esplosivo
dell’anno scorso, si moltiplicheranno esponenzialmente.
In ogni caso, a coloro che sostengono che comunque le armi e i terroristi passavano anche prima e che in sé l’apertura non è grave, occorre ricordare due fatti: il gesto dell’Egitto verso Hamas, l’aver fatto da garante e da buttafuori per il nuovo, pericoloso accordo fra Fatah e Hamas che impedirà qualsiasi accordo di pace con Israele, fa parte di una serie di gesti di apertura verso la Fratellanza sul fronte interno, e verso l’Iran su quello esterno. Insomma sono segnali di cambiamento della politica in senso religioso e filo iraniano. La Fratellanza si è nel frattempo qualificata come forza decisamente candidata alla gestione del Paese, ha promesso di instaurare la Sharia, ovvero la legge islamica, ha minacciato le donne e i modernizzatori, ha promesso la distruzione di Israele. Quanto al fronte iraniano, l’Egitto sta aprendo rapporti diplomatici, che erano stati interrotti dall’inizio della rivoluzione integralista, ha aperto il canale di Suez alle navi iraniane, si è volto anche verso la Turchia, altro lato del triangolo, nel mentre tutti questi interlocutori sorreggono il regime di Bashar Assad, il rais siriano che sta schiacciando il suo popolo nel sangue. Hezbollah, l’altro carabiniere dell’Iran, ha dato qualche giorno fa un segnale belligerante e ringalluzzito, attaccando i soldati dell’UNIFIL sul confine israeliano.L’Egitto, in buona sostanza, ha reagito con una ricerca di nuovi partner all’assenza di un interlocutore americano rassicurante, cioè dopo l’abbandono di Obama che ha lasciato travolgere Hosni Mubarak, il grande amico di un tempo. L’Arabia Saudita sta a sua volta organizzandosi per sostituire il sostegno americano che vede dissolversi all’orizzonte nell’atteggiamento evanescente di Obama. Ha chiamato a raccolta in un nuovo gruppo organizzato Pakistan, Malesia, Indonesia, vari Stati dell’Asia Centrale, e anche il Marocco.
Blocchi di potere nuovi si formano, ciascuno nella paura della belligeranza altrui, e sia l’Europa che Obama non sanno che lodare i magnifici istinti rivoluzionari e democratici dei popoli arabi, che per ora danno un qualche risultato positivo, forse, solo in Tunisia.
Israele fa bene in questa situazione a mantenere grande cautela. Il rinnovato rifiuto palestinese di sedersi al tavolo delle trattative (e non si capisce il perché date le aperture rinnovate di Netanyahu, se non considerandola una scelta ideologica) è parte della prospettiva della nuova coalizione Fatah-Hamas di recarsi all’appuntamento di settembre all’ONU chiedendo uno stato proclamato unilateralmente. Abu Mazen e Ismail Hanije non lo faranno pacificamente: dopo le trombe di guerra della celebrazione della Nakba e la successiva riunione della Lega Araba a Doha in cui Abu Mazen ha ribadito che il ritorno dei profughi fino ai pronipoti è sulla sua agenda e che qualsiasi Stato Palestinese sarà “pulito di ebrei” ha ottenuto il sostegno della lega araba e la sua richiesta a non sedersi con Bibi Netanayahu, adesso si avvicina il giorno della Naksa.
Così viene chiamata la copia in grande dell’invasione di campo, dentro i confini israeliani, da parte di siriani e libanesi lungo i loro confini compiuta appunto per celebrare la Nakba, il “disastro” palestinese della fondazione dello Stato ebraico. Stavolta per il 7 di giugno, anniversario della Guerra dei Sei Giorni, Facebook chiama a raccolta, per invadere a piedi Israele dai loro confini siriani, libanesi, giordani, palestinesi. La pagina di Facebook ha ricevuto già 375mila adesioni ed è stata intotalata“Conto alla rovescia verso la terza intifada palestinese”. C’è, insomma, chi punta su una strage di arabi che cercano di penetrare in massa Israele per lanciare una guerra che distragga da tutti le prepotenze, le ferocie, l’integralismo dell’area, come la risposta della Siria o dell’Iran contro i loro ribelli, la prepotenza degli Hezbollah sul Libano, l’ascesa della Fratellanza Musulmana in Egitto. Israele si prepara a questo appuntamento nella speranza di evitare qualsiasi spargimento di sangue. I nemici, nella speranza che invece il sangue venga versato.