Rabin e re Hussein firmano, Clinton cita la Bibbia e promette: il ter rorismo non vincerà Il giorno della pace per i figli di Abramo L’ombra di Ara fat sulla festa di Israele e Giordania
giovedì 27 ottobre 1994 La Stampa 0 commenti
WADI ARABA NOSTRO SERVIZIO Nel deserto, come sempre, si annuncia la
Nuova Parola: pace, Shalom, Salaam, come hanno ripetuto Bill Clinton,
Yitzhak Rabin, il re Hussein. Davanti le tribune, immense, con
cinquemila ospiti illustri, gli occhi delle telecamere di tutto il
mondo puntate, la stampa, e poi di fronte, il tappeto rosso sulla
sabbia gialla e nera, il palco con il tavolo dove i due ministri
degli Esteri, l’israeliano Shimon Peres e il premier giordano Abdul
Salam Majali hanno firmato il trattato; e i grandi, tra cui anche il
presidente Ezer Weizman, il principe della corona Hassan, il
segretario di Stato americano Warren Christopher, il russo Andrey
Kozirev, il ministro degli Esteri Antonio Martino. Dopo 46 anni di
guerre, sotto un sole da poco meno di 40 gradi, senza un filo
d’ombra, un altro miracolo è avvenuto. Intorno il grande teatro
mediorientale inscenava, persino ieri, il suo eterno conflitto:
Arafat furente proclamava uno sciopero parallelo a quello di Hamas,
ribadendo che Gerusalemme sarà la capitale dello Stato palestinese e
non un patronato religioso-politico del Regno hascemita di Hussein;
Israele esibiva tutta la sua gioia mostrando ai bambini delle scuole
tutta la cerimonia del Trattato di Pace; le Katiusce, però ,
piovevano dal Libano sulla città di Kiriat Shmone; le opposizioni
israeliane non rinunciavano a ribadire i loro sospetti, Assad di
Siria preparava l’incontro di domani con Clinton, desideroso di
ribadire la sua forza. E tuttavia, più forte di tutto il
palcoscenico della storia, accanto ai discorsi politici, si levavano
le voci di un muftì e di un rabbino, che pregavano insieme per la
pace. Hussein è arrivato per primo dal deserto dell’Arhvà , alle sue
spalle la mitica Aqaba. Sotto una grande tenda marrone posta dietro
al palco si è rifugiato all’ombra con la splendente moglie Nur e gli
altri suoi familiari ad attendere gli ospiti. Poi all’una è andato
incontro a Rabin e a Peres, con calore e a grandi passi, e poi di
nuovo verso Ezer Weizman. Infine tutti insieme hanno accolto Clinton,
elastico, ventoso, affiancato da Hillary che, per caso, era vestita
con un tailleur dello stesso turchese e di taglio quasi identico a
quello della regina. Il grande proscenio era pronto: il cielo
accecante, compatto, le signore sedute in platea e in prima fila, i
Grandi sul palcoscenico, tutti vestiti di blu e a capo scoperto sotto
la canicola (Rabin però si è fatto presto portare un cappelluccio
con su scritto in ebraico: ). Gli speaker
chiedono alla folla il silenzio, e sulle montagne rosse, nelle valli
sabbiose cosparse ancora di mine (è proibito a tutti allontanarsi
dall’asfalto appena gettato) le bande nazionali giordana e israeliana
fanno risuonare le note dei tre inni nazionali, giordano, israeliano
e americano. Fra un attimo scoppierà la pace. Non importa più se
Clinton ha voluto (così si dice) la cerimonia proprio all’una
perché tutti gli americani possano guardarlo fra un toast e il primo
caffè del mattino, data la diversità di fuso orario; né che la
forza dei media divori anche il deserto con il suo frastuono, le sue
voci. D’un tratto s’impone una realtà più forte di tutto, quella
della guerra e della pace, e chiama a raccolta in un minuto di
silenzio per tutti coloro che sono morti nelle tante guerre del
passato. dice re Hussein, il primo a
parlare. La sua voce è quella delle lacrime, molto bassa, molto
fiera; è davvero un re quello che proclama la pace,
e di tolleranza, la fine della diffidenza e della paura per le future
generazioni; è un re sul trono quello che annuncia che non ci sarà
più né morte né miseria, né ansia come nel passato per tutti i
figli di Abramo: giordani, arabi, israeliani, palestinesi.
quanto abbiamo tutti quanti sofferto. Così consentiremo alle
prossime generazioni una vita migliore. esordisce Rabin
in ebraico:
vostri cuori oltre i vostri confini, lavorate per trarre il meglio
dalla pace. E noi non lasceremo che vinca il terrorismo che nega la
pace e non abbandona l’odio. Siano benedetti i portatori di pace,
conclude biblicamente Clinton. Il presidente sa però che questa pace
è stata possibile perché si è trattato di una
pace, che non ha richiesto a nessuno prezzi di carattere
territoriale; che non vi sono comunità da sradicare; non soldati
stranieri da collocare sui confini; nessun assetto strategico da
rivedere completamente. Inoltre il sottinteso che ha tenuto Arafat
lontano dalla cerimonia (cui non è stato invitato) è il comune
rischio palestinese che Israele e Giordania da sempre affrontano, è
la speranza che la pace lo neutralizzi almeno in parte. Tutto il
contrario dell’accordo con Assad, che aspetta Clinton stamani per un
difficile colloquio. La cerimonia finisce, sono ormai le due: a
Eilat, città di vacanze, molti hanno seguitato a fare il bagno. A
Tel Aviv ancora si piange per l’attentato di Dizengoff. Le limousine
si muovono dal deserto col loro carico di commozione verso un futuro
un po’ meno terribile, forse, ma sempre mediorientale. Fiamma
Nirenstein