Profughi, generazione dopo generazione. Un mestiere come un altro, grazie all’UNRWA
Shalom, gennaio 201
di Fiamma Nirenstein
Sono lo strumento utile alla leadership palestinese per realizzare sul piano demografico ciò che non si è riusciti a realizzare sul piano militare: cacciare gli ebrei e prenderne il posto.
Saeb Erekat è un famoso, importante negoziatore palestinese, sempre al fianco dei leader che si sono succeduti, Arafat e Abu Mazen, senza pagare alcun pegno ai pur evidenti errori, specie del primo, cui il suo comportamento deve aver contribuito non poco. Incravattato, sbarbato, un politico colto con il suo ottimo inglese, non ha mai esitato a passare da un tono diplomatico e paludato all’invettiva antisraeliana più violenta, rivelando un animo estremista che adesso ha esposto in un’intervista al Guardian, un quotidiano inglese molto sbilanciato nella sua narrativa sul conflitto israelo-palestinese.
Il “negoziatore” ha dichiarato che la stima dei rifugiati palestinesi dispersi nel mondo è di più di sette milioni, ovvero, guarda un po’, lo stesso numero degli abitanti dello Stato di Israele, e che in qualsiasi accordo di pace accettabile i figli, nipoti, pronipoti dei profughi devono tornare a casa loro, nei villaggi da cui se ne sono andati i loro nonni nel ‘48 o nel ‘67; inoltre i profughi intesi in questo larghissimo significato, hanno diritto a indennizzi da parte di Israele per il torto subito. Intanto è fondamentale notare che nella questione dei profughi funziona un meccanismo tipico della propaganda palestinese, in tutta la sua narrativa: i palestinesi creano un evento che comporta per loro conseguenze negative e Israele, che semmai ha fatto di tutto per evitarlo, deve successivamente ricavarne il biasimo e pagarne il prezzo. Le guerre di Israele sono tutte quante raccontate dai palestinesi e dai loro sostenitori in questo modo: da quella del ‘48, quando Israele aveva accettato la partizione e i paesi arabi non solo assalirono il nuovo Stato ebraico ma anche invitarono i palestinesi ad abbandonare la terra, fino al ‘67 quando Israele pregò direttamente la Giordania di non entrare nel conflitto e non fu ascoltata, fino alla guerra di Gaza quando dopo un bombardamento di migliaia di missili su Sderot e Ashkelon, Israele fu costretto a intervenire per fermare la letale pioggia… sempre, successivamente, è stato ritenuto la fonte dei guai creati da altri e responsabile nel doverli riparare a tutti i costi. Questa modalità narrativa, di grande successo, è applicabile in tutti i casi di delegittimazione del comportamento ebraico: dalla battaglia di Jenin, capitale degli attacchi terroristici della tragica seconda Intifada, alla provocazione della Flottilla turca.
Ma la questione dei profughi palestinesi è veramente il più incredibile caso di volenteroso fraintendimento mondiale: volenteroso perché l’ONU, che ha creato nel 1949 l’UNRWA, United Relief and Work Agency for Palestinian Refugees in the Near East, sa benissimo che invece di aiutare i profughi a costruirsi una vita vera ovunque i rifugiati si trovino, paga e mantiene milioni di discendenti di profughi per essere pronti a eseguire l’indicazione che Saeb Erekat fornisce candidamente nell’intervista al Guardian: essere pronti, generazione dopo generazione, a tornare a casa, a prendere possesso della terra di Israele.
E non è una novità quella che Erekat consegna al Guardian. Non è mai venuta dalla leadership palestinese la parola d’ordine, la speranza, di stabilire i discendenti dei profughi in un nuovo Stato palestinese: l’idea è quella, per altro ripetuta in mille occasioni diverse, di cacciare gli ebrei e prenderne il posto. A questo è servita l’UNRWA dal 1949. L’UNRWA, come ha scritto su Commentary Michael S. Brenstam, è uno degli ostacoli principali alla pace in Medio Oriente, perché la sua stessa esistenza disegna una guerra perpetua fra palestinesi e israeliani. Per 60 anni l’UNRWA ha pagato i palestinesi per rimanere profughi: nella mia memoria personale c’è un giovane uomo, di cui non voglio dare nessun elemento che possa condurre alla sua identità, che avendo chiesto il permesso di lasciare il campo profughi in cui era nato, se lo è visto negare per anni e anni dai dirigenti del campo e dalla mentalità che si crea a causa dell’UNRWA, che perpetua la condizione di militante full time pagato per questo, finché è riuscito a scivolare fuori per strade traverse.
Sempre nella mia memoria, rivedo mappe sui muri in cui la Palestina si mangia tutto quanto lo Stato d’Israele, dove la Palestina è la terra madre e unica. Nelle sedi dell’UNRWA ho incontrato gruppi di giovani e di lavoratori dell’UNRWA fra i più decisi ed estremi propagandisti della guerra; murales e manifesti nelle scuole e in altre sedi glorificano i terroristi suicidi con ritratti e demonizzano gli Israeliani facendone odiosi mostri da uccidere. Su 30mila addetti, l’UNRWA conta solo circa 200 membri di provenienza internazionale: molti usano le attrezzature e i fondi dell’UNRWA per aiutare le organizzazioni terroristiche; in Libano dai campi profughi si sprigiona un’insorgenza continua.
Nelle sue strutture si accumulano armi, si accolgono combattenti, si rifornisce la casamatta. Questo è l’UNRWA: un’organizzazione che con i suoi sussidi ha portato il numero della popolazione rifugiata in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Gaza da 726.000 nel 1950 a quattro milioni e 800mila nel 2010. Di questi, il 95 per cento vive a spese dell’UNRWA. In parole povere, mantenere lo stato di rifugiato per un palestinese comporta ingenti sussidi in denaro: casa, educazione, servizi sociali e assicurazioni, credito bancario provengono da una specie di sistema di welfare state sovranazionale unico al mondo cui è certamente difficile rinunciare per cercare quella ricollocazione sociale e geografica cui invece tutti i profughi, compresi quelli ebrei cacciati dai Paesi arabi e da tutti gli angoli del mondo, hanno dovuto adattarsi, talora con risultati molto positivi di reintegrazione e sviluppo.
I profughi secondo la definizione dell’UNRWA sono diversi da quelli di tutto il resto del mondo, diversi da venti milioni di rifugiati creatisi nel secolo scorso che oggi sarebbero certo diventati un centinaio di milioni (così calcola Giorgio Israel) da reinstallare in India, in Pakistan, in Germania, nei Sudeti, in Polonia, in Russia… I pronipoti dei rifugiati della Prussia Occidentale tuttavia non fanno saltare per aria le pizzerie di Kaliningrad in Russia, una volta Konisberg, ritenendolo un loro diritto come i rifugiati palestinesi cresciuti nei campi profughi. L’UNR WA non prevede integrazione nei Paesi di accoglienza che infatti non sono per nulla spinti in questa direzione, ma semmai biasimati se, come la Giordania (unico fra i Paesi arabi), concedono la cittadinanza ai palestinesi. Tali Paesi peraltro parlano la stessa lingua, mangiano lo stesso cibo, condividono costumi e religione locale, si trovano sovente a pochi chilometri dal luogo di origine del nonno o bisnonno. Così la vita del rifugiato in Libano diventa vita da campo profughi ultra politicizzato, cui viene negata la cittadinanza e il diritto a possedere alcunché o a fare parte di associazioni locali, di sindacati, ma viene esaltato politicamente e di questo vive anche fisicamente. Una situazione che nega ogni sviluppo personale, ogni aspirazione dignitosa, giusta, pacifica, ogni speranza in uno stato palestinese autonomo accanto a Israele.
L’integrazione, idolo dei nostri tempi, viene severamente esclusa sia dai Paesi che ospitano i palestinesi sia dall’UNR WA stessa, che li sussidia soprattutto in una perpetuazione della riconquista della terra di origine. Il diritto al ritorno che viene proclamato dall’ONU è un diritto al ritorno dopo un esilio auto inflitto, in un luogo che non è mai stato uno Stato palestinese, di pronipoti che non devono rivedere qualcosa, ma insediarsi in una nazione dai confini ben stabiliti, Israele, per creare un’esplosione interna che dovrebbe portare alla costruzione di uno Stato palestinese ben fuori dei limiti stabiliti dalla partizione del 1947, distruggendo lo Stato esistente sul luogo!
Tutta la faccenda è assai assurda, specialmente se si pensa che l’UNRWA è una macchina di autorigenerazione dell’oltranzismo palestinese, quasi tutti gli educatori e gli addetti sono palestinesi ideologicamente ben collaudati nell’esercizio della negazione della legittimità di Israele e quindi, al contrario, esercitati nell’interpretazione del ritorno a casa come diritto che esclude l’esistenza di uno Stato ebraico, e quindi di uno Stato palestinese compatibile, fianco a fianco l’un l’altro. Ma soprattutto quello che duole è la crudeltà di questa istituzione. Bernstam, citando Marx e Engels, definisce la creazione dell’UNRWA “sottoproletariato” e racconta come Stalin fosse contrario alla costruzione dell’UNR WA e scrivesse al suo rappresentante all’ONU : “Noi non dobbiamo votare per l’UNRWA… Abbiamo bisogno di una classe di lavoratori cosciente, non di un lumpenproletariat palestinese parassita”.
Per una volta nella storia, il blocco comunista, che votò contro la risoluzione 302 dell’8 dicembre 1949, aveva ragione: dall’UNR WA è nato un mondo palestinese demotivato rispetto al presente, proiettato in una dimensione sempre e soltanto bellicistica, in cui non si vuole “tornare”, ma “prendere”. Hamas è senz’altro in parte un prodotto dell’idea che vivere dedicandosi soltanto alla guerra sia un pieno diritto, anzi, un dovere.
L’UNRWA è in buona parte responsabile di questa convinzione, diffusa anche in Cisgiordania, non solo a Gaza. Certo, questa per il processo di pace non è una premessa compatibile.