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POLEMICA. Storici in guerra: sionismo violento? Padri d’Israele quale fu il prezzo della libertà

giovedì 28 luglio 1994 La Stampa 0 commenti
dibattito tra i vecchi e i nuovi storici all’Università di Tel Aviv. Quando, l’altra settimana, i vecchi professori di storia con la camicia bianca da kibbutznik e l’erre tedesca, e i professori giovani in T-shirt con l’accento americano misto all’eloquio ebraico e allo slang tecnicistico si sono scontrati - con il pianto o con l’odio nella voce - è stato chiaro che quello che è in corso adesso in Israele non è un dibattito storiografico puro e semplice, e neppure confinato alle pagine dei giornali, ma una battaglia sul significato e la legittimazione stessa dello Stato, sulle intenzioni stesse di Ben Gurion, Golda Meir e del gruppo di umanisti socialisti fondatori dello Stato ebraico. Il sionismo alle sue origini e nel primo farsi dello Stato fu un movimento di umanisti e pacifisti in lotta con difficili circostanze, o un movimento criptocolonialista? La classe dirigente tempratasi sul marxismo e sul Talmud nel Nord Europa e poi sbattuta dalle persecuzioni o sospinta dall’ideologia a dissodare le dune e le paludi mediorientali, aveva un intento fondamentalmente morale, o era invece un gruppo che in maniera sostanzialmente priva di scrupoli deportò , sfruttò , perfino massacrò gli abitanti arabi di questo piccolo pezzo di terra per il suo tornaconto? La discussione da anni strisciava; l’ha iniziata uno storico cinquantenne di formazione anglosassone- statunitense, Benny Morris. Con lui vengono in schiera un gruppo di studiosi in tutto simili, fra cui i più determinati: Ilan Pepe, Baruch Kimerling, Shlomo Sabriskij. Dall’altra parte tutti i testi della storia del sionismo nella storiografia classica e, oggi, soprattutto lo scrittore Aron Meged, che ha scritto il manifesto militante della protesta contro i nuovi storici; e poi, vari professori di storia e di scienze politiche, famosi come Anita Shapira, Shlomo Aronson, Moshé Lisk. La polemica cominciò in tono minore, un venticello destinato a divenire una tempesta, con la ricerca di Benny Morris finanziata e pubblicata nel 1987 dalla Cambridge University Press. Il APTITOLO problema dei rifugiati palestinesi, 1947-49. Con uno studio compiuto quasi interamente negli archivi inglesi, fino ad allora rimasti misteriosi al pubblico israeliano, Morris indagò appunto perché e come tra il dicembre ‘47 e il settembre ‘49 dai seicentomila ai settecentocinquantamila palestinesi divennero profughi e perché , invece di tornare, rimasero tali. Furono cacciati? Se ne andarono volontariamente? Fuggirono in seguito a scontri? Ci fu addirittura un piano di espulsione? Si tratta di una questione fondamentale per stabilire l’intento e quindi la legittimità morale dello Stato di Israele. Infatti la mitologia palestinese proclama che l’yishuv, ovvero il nucleo di ebrei che si era lentamente formato in Israele a partire dalla Dichiarazione Balfour del 1917, aveva messo a punto un piano tipicamente colonialista e imperial-occidentale, un disegno militar-politico di occupazione delle terre accompagnato dall’espulsione di tutta la popolazione. Gli arabi hanno sempre sostenuto anche che questo piano venne attuato con cinismo e perfino con ferocia, specie durante quella che per gli ebrei è invece la grande guerra d’indipendenza, ricca di tutti i possibili significati morali: la guerra del 1948, che contrappose tutto il mondo arabo al piccolissimo Stato neonato. Gli israeliani invece hanno sempre sostenuto, fino al libro di Morris, che gli arabi fuggirono volontariamente, nel senso che furono i Paesi arabi circostanti Israele che, una volta deciso di assalire il Paese neonato, chiesero ai propri fratelli che vi abitavano di lasciar libero il campo andandosene, cosicché fosse più facile buttare tutti gli ebrei in mare senza intoppi. Negli anni, Morris e i suoi compagni hanno dichiarato che questo modo di pensare la storia è tutto sbagliato, è soprattutto antiscientifico e ideologico. Tutte le carte conservate soprattutto negli archivi britannici, mostrano inequivocabilmente dati di fatto imbarazzanti: gli arabi erano sì ostili e aggressivi, ma tuttavia furono messi in fuga dai loro villaggi prevalentemente con la forza e non se ne andarono affatto volontariamente se non in casi sporadici. I nuovi arrivati avevano sì comprato i terreni, e avevano sì pagato i fellah ma non si tirarono indietro quando furono in grado di prendere la loro terra gratuitamente; lavoravano sì fianco a fianco con gli arabi, ma il mercato del lavoro ebraico era assai più pregiato di quello palestinese; e lo scopo del dissodare i terreni aridi e paludosi comprendeva solo collateralmente l’interesse arabo, e privilegiava di gran lunga quello ebraico. Tutto questo, aggiungono gli storici dello scandalo, non equivale di per sé a una condanna totale della storia bensì a una sorta di autocoscienza; gli americani per esempio non si sono troppo autofustigati per aver spostato e sgominato gli indiani, ma hanno pur dovuto ammettere di averlo fatto. Questa interpretazione equivale però - insiste Morris - a una revisione definitiva dei propri criteri di legittimazione. Su questo pressante e anche un po’ querulo nuovo orientamento è metaforicamente scorso il sangue. fate una storia cartacea, voi non c’eravate: io c’ero, dice Aron Meged, quasi con le lacrime agli occhi. americani che israeliani, non esitate a scrivere i vostri libri prima in inglese che in ebraico, a gioire delle recensioni degli intellettuali arabi, tutti sempre entusiasti, siamo noi che abbiamo affrontato la morte per fatica e per malaria, per creare Israele. Noi eravamo soggetti agli attacchi degli arabi nelle nostre comuni agricole, per lungo tempo inermi. Noi sapevamo che creare uno Stato per gli ebrei equivaleva, specie dopo l’olocausto, né più né meno che dare a noi stessi qualche possibilità di sopravvivenza per il nostro popolo decimato. crearci dei peccati originali. Sono certo - aggiunge Aronson - che quando ci si interroga sul perché della pervasività e del successo quasi totale delle persecuzioni naziste troviamo una delle risposte nella nostra capacità tutta ebraica di auto-odiarci, che ora sta diventando addirittura una moda storiografica. Anche gli arabi, semmai, hanno patito dalle persecuzioni inferte loro non per la volontà degli ebrei di far del male; tutt’al più siamo due vittime della storia. I nuovi storici per parte loro accusano i vecchi di essere i fondatori di una storiografia bugiarda e propagandistica. Fascisti, stalinisti, estremisti, antisionisti, antisemiti, gran bugiardi: le accuse volano simmetriche. E tuttavia lentamente le due parti cercano un terreno d’incontro: sempre più i nei loro molteplici, ormai frequentissimi interventi sulla stampa periodica e quotidiana ripetono che i documenti provano che gli arabi sono stati cacciati durante e dopo la guerra del ‘48, ma che altrettanto comprovata è la loro aggressività , la furiosa propaganda degli Stati arabi che incitavano allo sterminio degli ebrei; e anche che pure questo non fu mai voluto né pianificato dai fondatori del sionismo con cinismo. Aron Meged e i suoi a loro volta capiscono che gli archivi stanno sputando fuori verità incontrovertibili e che l’israelianizzazione del territorio del nuovo Stato nacque da un forcing intensivo e anche violento, oltre che da una necessità storica. Così i loro appelli ai nuovi storici sempre più hanno il sapore di inviti alla moderazione, a guardare alla sofferenza ebraica oltre che a quella araba, a ricordarsi anche dell’antisemitismo e della terribile insorgenza dell’estremismo islamico. Fiamma Nirenstein

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