POLEMICA LA PACE ZOPPA In Israele la tribù dell’anti-Nobel Domani la consegna del Premio, rabbia contro Yasser
venerdì 9 dicembre 1994 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME ALTO, diritto e candido di capelli, lo sguardo azzurro e
invitto, l’anti-Premio Nobel si è materializzato in Israele
all’antivigilia della consegna del massimo riconoscimento
internazionale per la pace a Rabin, Peres, Arafat. Si chiama Kaare
Kristiansen, è norvegese, ha 74 anni e un curriculum politico di
prima categoria (ministro dell’Energia dall’83 all’86, parlamentare
dal 1969, leader del partito cristiano-democratico) ed è membro del
comitato che ogni anno laurea con il Premio Nobel i personaggi più
significativi. Ecco: Kristiansen non ha potuto sopportare che il
Premio Nobel per la pace venisse conferito ad Arafat e poiché nel
comitato o stai alla decisione della maggioranza o ti dimetti, se
n’è andato. Ora che Israele si prepara a vedere i suoi leader e i
leader dell’Olp calcare insieme la scena mondiale nella cerimonia di
domani sera, ora che con l’aria di tempesta che tira, i giornali, la
tv, l’opinione pubblica fibrillano non di soddisfazione, ma di
interrogativi e di disagio, la presenza in Israele di Kristiansen
catalizza un polo anti-Premio Nobel, che è un po’ anti processo di
pace, o almeno antipalestinese e che è nato con gli ultimi attentati
di Hamas e della Jihad. Kristiansen è olimpico nella sua scelta: ha
visitato minutamente Israele in quest’ultima settimana incontrando
moltissimi leader proprio nei giorni della preparazione della
cerimonia del Nobel, e ieri ha incontrato i giornalisti insieme al
padre di Nachshon Wachsman, il soldato ucciso or ora da Hamas, e Yona
Baumel, il padre del soldato disperso di cui Arafat, proprio alla
firma dell’accordo di Oslo, ha mostrato la piastrina di
riconoscimento promettendo di dare notizie entro due settimane.
fatto questa scelta - dice Kristiansen - solo per mantenere la mia
tranquillità d’animo: se avessi accettato il Nobel per Arafat, un
terrorista che ha colpito senza risparmio e a tradimento tanta
popolazione civile, avrei perso il rispetto per me stesso e per il
Premio Nobel. È una regola del nostro comitato indagare il passato
dei candidati. E al momento non ho davvero prove che il passato di
Yasser Arafat sia stato veramente cancellato. Spero solo che il
Premio Nobel che gli conferiranno domani sera lo induca a una
riflessione profonda. Il fatto che abbia rotto la promessa di dare
ulteriori informazioni sui soldati dispersi dimostra il suo incerto
rapporto con il terrorismo. E poi, come dimenticarsi del suo sostegno
a Saddam Hussein e della sua insistente guerra a Gorbaciov e alla
perestrojka? No, per carità , non sono contro il processo di pace,
né contro l’accordo di Oslo; né m’importa molto se le forze
anti-processo di pace mi vogliono strumentalizzare. Rifiuto ogni
contatto con organizzazioni politiche israeliane. Quanto a Peres e
Rabin, non intendo biasimarli perché vanno a prendere il premio
insieme ad Arafat. Sono personaggi con grandi responsabilità
politiche che esprimono la volontà della miriade degli elettori che
li ha messi al loro posto. Se la proposta del Nobel avesse riguardato
solo loro, avrei certamente accettato. Oggi il Premio è stato minato
alle fondamenta. Ma tuttavia non lo definirei in bancarotta. I
leader israeliani si preparano al Premio Nobel ostentando una certa
foga lavorativa: l’incontro di ieri fra Peres e Arafat, e le ennesime
dichiarazioni di buona volontà . Ma i commenti sui giornali e alla
televisione sono tutti appuntati sull’odierno senso di incertezza e
su un certo scontento popolare. La rabbia pubblica investe, un po’
sorprendentemente, i 60 ospiti israeliani che, 30 a 30, accompagnano
sull’aereo il primo ministro e il ministro degli Esteri. Chi paga i
loro biglietti? A chi importa che la cantante pop Ophra Hasa e il
cantante folk Yoram Gaon, svariati scrittori, un circolo di
intellettuali, di militari, di vip, di amici di famiglia e famigliari
accompagnino i vincitori del Premio?, scrivono i giornali. Chi non si
ricorda che Begin, quando gli fu conferito il Nobel insieme ad Anwar
Sadat, si portò dietro solo quattro collaboratori di ufficio, oltre
alla moglie, a uno solo dei suoi figli, e che la sorella si pagò il
biglietto da sola? Lo scrittore Sami Michael, che è stato invitato,
dice:
raid sul Libano. Ma sono parole al vento. Israele è stanca di
cerimonie ornate, invece che di festoni di fiori, di strisce di
sangue. L’anchorman Dan Margalit parla di un che serve
solo a sottolineare il gap fra il sentimento della gente e quello
della leadership. E Dan Rosemblum, il miglior commentatore del
quotidiano , ironizza:
terrorismo si usava la medicina: “Bombardare il Libano”. Ora la
medicina è diventata: “Cerimonie, cocktail, sorrisi, orchestre”.
La cerimonia copre l’urlo dei feriti e di chi cerca i morti fra i
rottami. Mentre i patrizi sulla Volvo vanno all’appuntamento mondano,
noi plebei montiamo sull’autobus di un incerto destino. Fiamma
Nirenstein