PERSONAGGI LA MISSIONE DI LEAH La cacciatrice di ebrei perduti Una vi ta per scoprire i
venerdì 28 aprile 1995 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV COME doveva essere rotonda Leah Balindt, principessina
maliziosa e rossa, all'età di 3 anni, a Ostrowitz, prima che per lei
si aprisse, 54 anni fa, quel buco nero da cui è risalita
portentosamente tirandosi dietro quasi a forza un esercito di
(lei ancora li chiama così ) dell'Olocausto. La sua pelle
è tirata e fresca, la sua frenesia è abbigliata di veli colorati,
gli occhi sono truccati, la bocca un poco a cuore. Ieri sera ha
acceso una delle fiaccole che in Israele solo le persone veramente
conficcate nel cuore ancora sanguinante della Shoah accendono ogni
anno a Gerusalemme.
gomitolo di buio e di abbandono. Accadeva che in una mattina in cui
la realtà teneva più d'appresso il fiato sul collo agli ebrei ormai
condannati a morte, i genitori disperati tentassero l'estrema carta
della salvezza per i loro piccoli: il ripudio, l'abbandono fisico.
Alcuni, già sui treni diretti ad Auschwitz oppure a Sobibor o verso
gli altri campi di sterminio, scagliavano a volte i loro piccoli dai
pertugi del vagone, giù nelle scarpate lungo il treno in corsa,
sperando che qualcuno, un contadino, un prete, li raccogliesse e li
nascondesse. E questo è spesso accaduto. Altri li affidavano ad
amici, a cameriere, a contadini; molti li consegnavano alla pietà
dei conventi. Per tutta la durata della guerra, nel migliore dei casi
questi bambini persero la loro fisionomia di nascita e acquisirono
un'altra identità , scordando il volto della madre e del padre e lo
Shemà Israel (la preghiera fondamentale dell'ebreo) per imparare
l'Ave Maria in polacco. Poi, alla fine della guerra, alcuni furono
riconsegnati da quei buoni religiosi alle organizzazioni ebraiche,
perché restituissero un'identità a quei bambini ormai convinti di
essere cattolici. Spesso non fu possibile: queste persone sono
rimaste ebree, ma senza nome e senza data di nascita, molti
emigrarono in Israele in seno alle organizzazioni giovanili. Altri
rimasero cattolici senza sapere, fino a ora, di essere ebrei, finché
qualche genitore morente gli ha detto d'un tratto:
quello che credi di essere. Leah Balindt fu messa fuori del ghetto
di Varsavia, dove i suoi erano stati convogliati, da un padre
proprietario di una fabbrica di mobili e da una madre che essa
ricorda . Passò dalle mani del
contabile di casa, cui era stata promessa metà della fortuna se
avesse salvato la bambina, a un monastero di suore:
vidi la luce rossa del ghetto in fiamme. "Dio è in collera", mi
spiegarono le suore. Mia madre, mentre mio padre era stato deportato,
veniva ogni tanto a trovarmi con mezzo pane bianco in regalo. Poi il
contabile vendette mia madre ai nazisti. La bella signora col pane
bianco scomparve dal cortile del monastero. Più avanti, Leah, dopo
la guerra, fu consegnata dalle suore che l'avevano nascosta a un
orfanotrofio ebraico:
che mi ha allevato e restituito la salute mentale e l'identità : l'ha
fatto con piccole foto ingiallite della mamma, con oggetti, con dei
suoni dei nomi di città e di strade, con odori di cibo. Nel
frattempo mio padre è resuscitato da Auschwitz ed è venuto
anch'egli in Israele. Solo la vita in Israele mi ha rieducato
pienamente: il matrimonio fortunato con un avvocato, tre figli, una
nipotina... E poi, una volta guarita, ho sentito il bisogno di andare
in Polonia, di rivedere il mio monastero, le mie suore. Là mi sono
resa conto che la mia era una storia collettiva, che non avevo il
diritto di tenermela solo per me, che c'erano quelli a cui era andata
molto peggio, cui non era rimasto attaccato addosso neppure un nome,
un vestitino... E ho cominciato a cercarli. Leah dapprima si è
messa in contatto con un gruppo di come lei, che già si
era formato in America; poi ha cercato le organizzazioni polacche,
personaggio per personaggio, una specie di comunità ebraica nascosta
sorta dalle ceneri di un passato sconosciuto. Infine, mentre
cominciavano a farlesi attorno le domande di tanti che non sapevano
niente di se stessi ha trovato, come lei dice,
Lodz. Il bambino era nato in via Jeronskego al numero 45, ed era
stato affidato disperatamente a un'evangelista di nome Genoveva
Zander. La donna, nonostante fosse stata torturata dalla Gestapo,
aveva protetto il bimbo con tutta se stessa. Waldek, una volta
restituito alla comunità degli ebrei, aveva sempre cercato la sua
identità sulla scia del falso nome David Zander:
voluto - racconta Leah - avere un figlio per non trasferirgli la
disperazione di quel buco nero: niente memoria, niente provenienza,
niente famiglia. Solo oggi si è fidato di quel nomignolo che gli
girava per la testa, è venuto da me, e poi piano piano abbiamo
ricomposto il puzzle soprattutto puntando sul nome della strada,
Jeronskego, che ballava nella sua memoria. Oggi è un uomo rinato, la
sua felicità è per me la più grande ricompensa. Tutte le persone
che ritrovano la propria identità sono rinate, cos'è la vita se non
un chiederci continuamente chi siamo e da dove veniamo, quanto può
un'immagine, un orto con un cavallo, e quanto può un nome, almeno il
nome, della madre di cui non hai mai conosciuto il volto. Anche un
prete di Lublino, Romuald Vashkiner, racconta Leah, ha scoperto
recentemente di essere ebreo, e ha ricostruito piano piano i passi
della sua mamma, l'affidamento a una famiglia cristiana che l'ha
amato teneramente, e che
chitarra, per tenerlo su, per consolarlo. Quando è stata quasi per
morire la sua mamma cristiana gli ha detto:
anche avuto un fratello ucciso dagli ucraini. Romuald è venuto in
Israele e ha celebrato finalmente il Kaddish, la preghiera che i
figli devono dire alla morte dei genitori, insieme con suo zio, un
ebreo molto pio che vive a Natania. Ha detto il Kaddish anche per la
sua mamma cattolica, e ha recitato le preghiere cristiane per la sua
mamma ebrea uccisa dai nazisti. Tutto questo dopo che Leah lo aveva
aiutato a recuperare la sua identità . Ogni giorno per Leah è
un'avventura: il telefono squilla e di là dal filo non le chiedono
ma . Fiamma Nirenstein