Per l’Iran Hillary ha una carta
Panorama, 9 marzo 2009, pag. 108
Il messaggio giunto dall’Iran in questi ultimi giorni, persino quando finge uno spunto diplomatico («Parleremo con Obama, ma solo quando gli Usa ci mostreranno rispetto» dice Mahmoud Ahmadinejad), è chiaro: «Siete tutti fuori tempo massimo». L’annuncio che la Russia ha completato il reattore di Busher, il satellite caricato su missili che possono condurre una bomba atomica a ogni latitudine, l’annuncio esplicito del capo dell’Organizzazione per l’energia atomica Gholamreza Aghazad («L’America deve guardare la realtà in faccia e accettare di vivere con un Iran nucleare»), gli interrogativi sull’acquisto del sistema russo di difesa S300, il lento risveglio dell’Iaea di Mohamed el-Baradei, oltre agli avvertimenti («È fatta purtroppo») degli esperti americani e israeliani...
Si prospettano quindi solo due ipotesi: o il mondo è pronto a vivere con la minaccia del paese integralista islamico che ritiene indispensabile dominare il mondo, oppure qualcuno deve fare qualcosa. George W. Bush fu bloccato dal proclama del National intelligence estimate (il coordinamento delle 16 agenzie di spionaggio Usa), che riteneva, erroneamente, interrotto l’arricchimento atomico. Ora Barack Obama spera di riuscire a parlare con l’Iran.
Israele, come ha recentemente detto il ministro della Difesa Ehud Barak, «non esclude alcuna opzione». Ma è chiaro che la gestione Obama non invita ad agire. Comunque, per trattenere Israele ci sono varie strategie.
La prima è quella di un ombrello nucleare, che prima di tutto dovrebbe risultare in una dichiarazione pubblica degli Stati Uniti che dovrebbe dire: «Un attacco di Teheran a Gerusalemme causerebbe una devastante risposta americana» (come già Hillary Clinton annunciò durante la sua campagna). Questo però significherebbe che Washington riconosce che l’Iran sta per diventare (o è già) una potenza nucleare e che può accettare l’ipotesi. Comunque, l’ombrello di protezione è già esemplificato dall’installamento di un sistema radar nel Negev.
Ma c’è una seconda complessa carta che il segretario di Stato Clinton ha lanciato sul tavolo da gioco. Il suo nome è Dennis Ross. Dopo i ritardi legati forse a una spartizione di competenze con l’inviato di pace di Obama George Mitchell, il mediatore di Clinton, ebreo, sionista, nonché presidente dell’Istituto di pianificazione del popolo ebraico, è divenuto «consigliere speciale per il Golfo Persico e il Sud-Est asiatico». Sarà lui, con la sua provata competenza, a consigliare i difficili passi del colloquio con Teheran, lui che ha detto che «la lenta diplomazia dell’Occidente non va d’accordo con il rapido sviluppo della capacità nucleare dell’Iran». Ma anche che «l’Iran ha ancora un ampio spettro di profonde vulnerabilità economiche».
Insomma, Ross vuole tentare l’arma della deterrenza e della trattativa, e la sua figura garantisce a Israele che chi sta trattando per gli Stati Uniti sa quant’è pericoloso l’Iran. Tuttavia, Ross come l’amministrazione crede che un processo di pace con i palestinesi sia indispensabile e che fermando la crescita degli insediamenti ebraici e aumentando il potere del presidente dei Territori, Abu Mazen, si farebbe un passo avanti. In pratica, dice Washington a Israele, Ross garantisce che noi conosciamo il pericolo e che faremo di tutto per fermare l’Iran. Tu però fai la pace con i palestinesi, magari anche se ti chiami Benjamin Netanyahu.